I risultati delle elezioni amministrative del 3 e del 4 ottobre vanno analizzati con grande attenzione perché rivestono un indubbio valore politico, sia per il peso delle istituzioni locali interessate – estremamente rappresentative delle tre grandi aree geografiche del Paese (Nord, Centro e Sud) – sia perché si è trattato del primo test elettorale dopo l’avvento del governo Draghi. La mia prima impressione è che essi evidenziano alcune tendenze posive insieme a molte ombre che lasciano incerta la prospettiva politica. Partiamo dalle tendenze positive: dopo il voto politico in Norvegia e in Germania e i primi sondaggi sulle prossime elezioni politiche in Francia, anche dall’Italia arriva un chiaro segnale di riflusso dell’ondata populista. La netta sconfitta del centrodestra a guida nazionalista – che aveva condizionato pesantemente gran parte delle scelte dei candidati a Sindaco della coalizione nelle città – ne è la prova evidente. Una sconfitta, bisogna dirlo, in parte attesa dopo la spaccatura che si era determinata tra Fratelli d’Italia e Lega sulla scelta di sostenere il governo Draghi e poi dentro la Lega, tra la linea ondivaga di Salvini e la determinazione di Giorgetti e dei governatori delle regioni del Nord a sostegno dell’indirizzo politico europeista ed estremamente antidemagogico che Mario Draghi ha impresso ai suoi atti di governo. Non è un caso se l’unica vittoria del centrodestra arriva dalla Calabria, dove il candidato alla presidenza è stato scelto da Forza Italia, che fin dall’inizio ha sostenuto il nuovo governo senza se e senza ma. Il riflusso del populismo in Europa ed in Italia è indubbiamente un fattore politico di grande rilievo se consideriamo la situazione politica pericolosissima aperta, solo 5 anni fa, prima dalla Brexit e poi dalla vittoria di Trump nell’autunno del 2016, seguita qualche anno più tardi dalla formazione del primo governo populista della storia della Repubblica Italiana. L’altro dato positivo è rappresentato dalla conferma delle buone esperienze di governo del centrosinistra a Milano e a Bologna, dal suo ritorno al governo della città di Napoli e dalla possibilità di vincere a Roma e a Torino, dove, data la situazione di partenza, è significativo che al ballottaggio con il candidato del centrodestra vadano i candidati del PD. Tuttavia bisogna anche riconoscere che il buon risultato del Partito Democratico nelle grandi città è più figlio della divaricazione di prospettiva politica dentro il centrodestra che non della sua capacità di unificare tutte le forze della potenziale nuova coalizione di centrosinistra. Insomma la scarsa partecipazione al voto da un lato – che vede circa il 50 per cento dell’elettorato indifferente alla scelta tra diverse coalizioni e le diverse personalità alla guida dei comuni – e la mancanza di coalizioni omogenee sul piano politico dall’altro, segnalano che, se il populismo e l’antipolitica sono in declino, la politica, quella vera, e la democrazia rappresentativa, sono ancora lontane dal risolvere le cause della crisi acuta che attraversano ormai da molto tempo. In questo quadro il governo Draghi, che è pur sempre una anomalia prodotta dalla crisi politica delle coalizioni tradizionali, rimane una necessità almeno fino alla fine della legislatura. Non bisogna meravigliarsi di ciò. L’Europa ha retto fin qui alla prima ondata populista e nazionalista grazie ad una larga maggioranza di forze europeiste, non proprio politicamente omogenee, che và dai popolari, ai socialdemocratici, ai liberali, ai verdi e ad altre forze espressione di realtà politiche nazionali, a partire dagli stessi 5 stelle. Quella che si è delineata in Italia e in Europa a partire dal 2019 è una situazione simile a quella che portò, nella prima metà del secolo scorso, forze politicamente diverse a promuovere una larga alleanza antifascista per battere fascismo e nazismo, ridefinire i nuovi assetti istituzionali e solo dopo proporre una nuova dialettica politica tra schieramenti alternativi dentro un quadro di regole e di valori fondamentali condivisi. Lo scontro oggi in atto tra un rigurgito nazionalista – gravido di rischi per la tenuta del sistema democratico – e una riconfigurazione della globalizzazione che sia fondata sulla cooperazione e il dialogo tra grandi stati continentali, in grado di riaffermare il primato della mano pubblica sul mercato, non è meno cruciale di quello che a quel tempo portò all’Europa pace e democrazia. La larga base parlamentare che si è ritrovata intorno a Draghi è dunque destinata a durare, magari epurata dalla presenza dell’ala salviniana della lega – ora messa fortemente in discussione nel suo stesso partito – fino a quando il cammino nuovo intrapreso dall’Unione Europea non avrà ridimensionato ulteriormente il pericolo populista e le tradizionali coalizioni di centrodestra e di centrosinistra non saranno state in grado di rigenerarsi intorno a progetti e assetti credibili rispetto alle inedite e difficili sfide aperte. Su entrambi i fronti è difficile ipotizzare tempi brevi. Per l’Europa il Recovery Plan rappresenta certamente una prima risposta importante. Ma molto ancora resta da costruire sul piano dell’integrazione politica. In Italia l’unica cosa certa è che il quadro politico tripolare emerso dalle elezioni politiche del 2018 è definitivamente alle nostre spalle. Tuttavia nelle due coalizioni di centrodestra e di centrosinistra i problemi da affrontare, prima di poter tornare ad un sano e normale bipolarismo, sono abbastanza ardui . Su quali forze e su quali contenuti può ricostruirsi un centrodestra europeista, politicamente omogeneo, che sia perciò in grado di vincere e di governare, senza FDL e senza l’ala nazionalista della lega, oggi ancora catalizzatori di importanti consensi elettorali nonostante il declino populista? Nella situazione data è obiettivamente difficile il solo immaginarlo. Nel centrosinistra è invece evidente la frammentazione del campo e la difficoltà a tenere nella stessa coalizione una forza che esce nettamente ridimensionata da queste elezioni e ancora in fase di transizione – come quella dei cinque stelle – e altre componenti che se ne sentono distanti. Da questo punto di vista il dato di Calenda a Roma è significativo. Così come è significativa, per altri versi, la frammentazione che si è manifestata in Calabria, con il risultato di De Magistris, o l’impossibilità a tenere insiene fin dal primo turno cinque stelle e PD, in alcune città, a partire da Roma e Torino, dove si verificherà solo nei ballottaggi la possibilità di recuperare una intesa necessaria per battere la destra. Un quadro abbastanza complesso che per essere affrontato richiede il ruolo politico forte di una forza unitaria in grado di offrire un terreno di coesione sul piano della qualità e della credibilità della proposta programmatica e della prospettiva politica. Il PD fino ad ora ha fatto molta fatica a svolgere questa funzione perché non ha saputo ancora affrontare le cause che ne hanno determinato il ridimensionamento nelle elezioni politiche del 2018. L’abbandono di Zingaretti ha reso evidenti le enormi difficoltà che ostacolano il necessario processo di cambiamento di un partito che oggi è ancora un assemblaggio di correnti personali e comitati elettorali. Senza un rinnovamento radicale, capace di rifondare su nuove basi politiche e programmatiche la sua vita interna, è impossibile operare quell’apertura alle competenze e alle energie migliori, indispensabili per riuscire ad aggregare un campo progressista che non sia la solita alleanza elettorale di forze diverse – unite unicamente dalla salvaguardia delle rendite di posizione dei vecchi gruppi dirigenti – ma una vera alleanza politica coesa su idee nuove e progetti all’altezza delle inedite e difficili sfide del nostro tempo. Queste elezioni insomma dimostrano che il governo Draghi ha aperto un processo di scomposizione e ricomposizione delle vecchie alleanze politiche ma anche che questo cammino presenta diversi fattori di incertezza e ha ancora molti ostacoli e molta strada davanti a sé.
