Il 2023 sarà un nuovo anno di declino della politica?

Siamo entrati da tempo nell’epoca dell’incertezza, caratterizzata da un susseguirsi di crisi di diversa natura: geopolitica, economica, finanziaria, sanitaria, ambientale. Un epoca cui siamo approdati a causa del lento esaurirsi dell’ordine internazionale scaturito dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’avvio di una incessante rivoluzione tecnologica di portata inaudita che muta di continuo il nostro modo di vivere. Tuttavia abbiamo fin qui coltivato l’illusione che queste crisi ricorrenti – e gli scossoni violenti che esse producono ripetutamente sui valori delle attività economiche sia in discesa che in salita nel breve termine – potessero manifestarsi dentro un quadro di sostanziale stabilità di lungo termine che qualcuno ha definito di “stagnazione secolare”. Un quadro determinato dalla capacità delle grandi banche centrali di poter garantire – grazie ad una politica monetaria accomodante – una fase inesauribile di bassi tassi di interesse, di sostanziale assenza di inflazione e di bassa ma sicura crescita. L’anno che si sta chiudendo ha spazzato via anche questa residua certezza. Soprattutto in Occidente registriamo livelli di inflazione che ricordano quelli peggiori conosciuti negli anni Settanta. Le ragioni sono diverse. La prima causa va ricercata nella pandemia che, soprattutto nella fase iniziale, ha prodotto una strozzatura nelle catene di approvvigionamento che hanno causato un calo dell’offerta. Poi si è capito che questo problema non sarebbe stato di breve durata. Infatti agli effetti dei primi lockdown si è sommata una carenza di microchip legata alle conseguenze della transizione energetica e digitale su cui in realtà la pandemia aveva avuto solo un ruolo di accelerazione. Il colpo finale è arrivato con l’invasione russa dell’Ucraina che ha fatto schizzare alle stelle i prezzi dell’energia con effetti a catena sui mercati. Passata l’illusione di una fiammata inflattiva di breve durata le banche centrali hanno rapidamente abbandonato gli allenamenti quantitativi per passare a importanti aumenti dei tassi di interesse volti a riportare l’inflazione a livelli ragionevoli. Ma ora è evidente che si va verso una fase di recessione – si vedrà quanto profonda – che sarà pagata come sempre dai ceti più deboli, con buona pace di ogni proposito di riduzione delle diseguaglianze. Insomma è sfumata l’ipotesi della stagnazione secolare su cui avevano scommesso i più. L’incertezza e le diseguaglianze sono rimasti gli unici dati certi sia del breve che del medio e lungo termine. Non ci meravigliamo se poi il nazionalismo e il populismo, che sembrava avessero conosciuto una battuta d’arresto dopo il voto per il parlamento europeo e la vittoria di Biden negli USA, tornano a rialzare la testa, come dimostrano il voto in Italia ed anche le elezioni di mezzo termine negli USA, che per fortuna hanno avuto un esito meno drammatico di quanto ci si aspettasse. D’altronde ormai è evidente che tutte le diverse gravissime crisi degli ultimi 15 anni sono legate ad un unica grande crisi sistemica la cui prima matrice è di carattere politico. Se la madre di tutte le altre crisi è di ordine politico è illusorio pensare di poterle affrontare solo con politiche monetarie. Certo la pandemia ha rilanciato le grandi politiche fiscali degli stati, sia negli USA con diverse manovre di politica economica di proporzioni mai viste, sia in Europa, con il varo del Recovery Plan. Tuttavia l’Occidente non ha più il peso di un tempo. Il mondo è cambiato radicalmente. L’asse dello sviluppo si è spostato dall’Atlantico al Pacifico e il trend demografico ci dice che tra pochi decenni noi saremo una minoranza estrema, mentre a livello globale il ceto medio che continua ad accrescere il proprio livello di benessere non è certo quello che abita dalle nostre parti. L’accoppiata politiche monetarie accomodanti e politiche fiscali massicce è quella giusta ma può funzionare solo dentro una cornice di ricostruzione di un ordine internazionale in grado di rilanciare una vera cooperazione globale. Di fronte a problemi nuovi ed enormi da affrontare, di portata globale e perciò non risolvibili se non attraverso una concertazione globale (pensiamo ai cambiamenti climatici, alla transizione energetica, alle diseguaglianze sociali), senza rispondere al problema politico di un nuovo ordine internazionale, l’incertezza di futuro continuerà ad alimentare i diversi nazionalismi, con tutti i rischi che ne conseguono, come la stessa guerra in atto ai confini dell’Europa dimostra. Purtroppo non si intravede una riflessione politica adeguata a questo passaggio epocale. La società USA continua ad essere profondamente divisa anche sul terreno della democrazia mentre è evidente il vuoto di una dottrina politica internazionale nella classe dirigente della prima potenza globale (ma è ancora tale?). In Europa regge a fatica un equilibrio politico che tiene insieme socialdemocratici, popolari, liberali e verdi ma non si scorge una famiglia politica in grado di costruire un pensiero di svolta, che ci faccia andare oltre la pura sopravvivenza. Un pensiero in grado di dare all’Europa quella spinta verso una effettiva integrazione politica che la metta in condizione di svolgere una funzione di vera potenza globale. In Italia dopo un voto devastante – che ha portato al governo una destra apparentemente estrema ma in realtà confusa e senza una chiara bussola, come insegna la vicenda della legge finanziaria – l’opposizione appare divisa e il suo partito più forte sul piano parlamentare si avvia a celebrare un congresso giocato tutto sui nomi e sulla tattica, fin qui privo di una base di confronto culturale e politico all’altezza della fase. Senza novità sul piano politico, che attualmente non si scorgono all’orizzonte, il 2023 non potrà cambiare un quadro drammaticamente incerto. Perché è la crisi della politica la madre di tutte le crisi che stiamo attraversando.

Un commento

  1. Concordo, il mondo è un villaggio globale di otto miliardi di persone senza una politica che indichi la rotta per governare i processi di cambiamento in atto. In occidente la gente ha paura perché è al buio e si affida alle politiche che mostrano i muscoli. Dobbiamo portare luce di una nuova visione del mondo per evitare una catastrofe mondiale. La globalizzazione è un processo già realizzato. In questa situazione pensare ancora come la Meloni di portare più Italia in Europa e non più Europa in Italia è una politica per fessi. Come pure occuparci di presidenzialismo in Italia anziché in Europa. Oggi per essere protagonisti nel mondo ci vuole il fisico e noi possiamo averlo solo con gli Stati Uniti d’Europa federale e presidenziale.

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