Confesso di non aver compreso le ragioni delle dimissioni di Zingaretti. Molti di noi – che avevano abbandonato l’impegno politico attivo, delusi dalla deriva del partito – nel marzo del 2019 tornarono sui propri passi per partecipare alle primarie e votare il segretario che proponeva di cambiare dalle fondamenta un partito uscito ridimensionato dalle politiche del 2018, perché ormai – ridotto ad una sommatoria di comitati elettorali – e privo di un progetto e di una classe dirigente adeguati al passaggio epocale che stiamo attraversando. A distanza di due anni quel segretario comunica improvvisamente di lasciare l’incarico affermando che il PD è ancora un “poltronificio” ostaggio di correnti e di comitati elettorali. La spiegazione non è sufficiente. Qualche parola va necessariamente aggiunta per chiarire le ragioni che non hanno permesso il cambiamento più volte annunciato e – almeno per quel che riguarda la struttura del partito – mai arrivato. Perché delle due l’una: o il segretario non è stato all’altezza del suo impegno e dunque lascia per passare la palla a qualcuno più fresco, più bravo e più motivato per portarla in rete; oppure le incrostazioni correntizie e personalistiche sono ormai tali da rendere il PD irriformabile. Fare chiarezza è necessario e non solo per chi resta e deve valutare il “che fare” ma anche per tanti che dall’esterno hanno coltivato la speranza della ricostruzione di una alleanza progressista su cui poter contare per fermare l’ondata populista e nazionalista e rilanciare il progetto di una nuova Europa, come unico orizzonte per combattere le diseguaglianze e provare a governare la grande crisi istituzionale, finanziaria, economica ed ambientale che rende incerto il futuro dell’umanità in questi primi tragici decenni del XXI secolo. Zingaretti ha dichiarato che non intende ritornare sui suoi passi ma neppure abbandonare l’impegno politico che continuerà “da uomo libero”. In quale direzione sarà diretto questo impegno? Sarebbe bene chiarirlo perché tutti coloro che ritengono necessario costruire in questo Paese un soggetto politico riformista in grado di portarci fuori dalla grave emergenza nella quale siamo – cogliendo l’occasione storica della svolta europea del Recovery Plan – vogliono capire se è possibile guardare ancora ad un PD in grado di rigenerarsi e diventare il motore di questo processo o se, invece, bisogna pensare ad altro. Lo dico perché in realtà in questi tre anni Zingaretti è riuscito almeno in parte a mantenere le sue promesse. Ha ricollocato il PD come un partito non più chiuso in una illusoria ed incomprensibile “vocazione maggioritaria” ma aperto alla collaborazione con altre forze, rendendolo nei fatti il principale argine alla deriva populista e nazionalista. Grazie a questa politica il PD è tornato a crescere, a vincere in molte regioni e città, contribuendo prima a determinare la crisi del primo governo populista della storia repubblicana, poi a costruire un nuovo governo che – con tutti i limiti legati alla realtà amara di un parlamento come quello eletto nelle elezioni del 2018 – ha ricostruito un rapporto con l’Europa, senza il quale, dopo l’ubriacatura nazionalista e l’arrivo della pandemia (con i suoi effetti devastanti sull’economia e sulla società), l’Italia sarebbe stata travolta e senza speranza alcuna. Certo tra varie emergenze politiche ed una emergenza sanitaria ed economica senza precedenti, Zingaretti ha dimenticato l’urgenza dell’impegno per cambiare il partito, liberarlo dalle correnti, ricostruendo un rapporto forte con la società e il territorio, sulla base di una lettura puntuale delle grandi trasformazioni in atto e della elaborazione collettiva di un nuovo pensiero all’altezza della fase. Serviva un congresso straordinario capace di riarticolare la vita interna su nuove basi – politiche e non correntizie. L’errore è stato rinviarlo – ovviamente anche a causa dell’arrivo della pandemia – abbandonando ogni necessario lavoro capace di rinnovare il partito, a partire da un collegamento forte del segretario e del gruppo dirigente nazionale con le federazioni, i circoli, la base, il territorio. Ma allora serve una autocritica non un abbandono. Tanto più che queste dimissioni determinano una situazione paradossale. Nel momento in cui – grazie a Mattarella – una crisi scriteriata al buio si è risolta non con un governo tecnico ma con una soluzione che – con Draghi premier – colloca con forza l’Italia come Paese decisivo per rilanciare il processo di integrazione politica dell’Europa, il PD – che su questo terreno è la forza certo più coerente ed attrezzata – lascia ad altri la funzione di architrave di questo passaggio cruciale. È vero che la sinistra è da sempre molto brava a farsi male da sola ma dovrebbe pur esserci un limite anche a questo. Se le dimissioni di Zingaretti hanno lo scopo di dare una scossa per rilanciare il suo progetto di cambiamento del PD – rimotivando le forze sane e vive del partito e del centrosinistra ad un rinnovato impegno di elaborazione, di iniziativa e di cambiamento – ben vengano. In caso contrario il rischio non è quello di tornare all’irrilevanza – cui ci avevano relegato i risultati elettorali delle politiche del 2018 -ma di precipitare rapidamente in un pozzo senza fondo.

Zingaretti, non ti puoi dimettere, ti ha votato il popolo, non 4 dirigenti di partito, stai facendo un grande sgarbo a tutti quelli che si sono messi in fila, hanno pagato 2 euro, per vederti segretario, non ti puoi dimettere, provocheresti l’ennesima frattura tra la gente di sinistra e il PD, finisci il tuo mandato di segretario poi se libero di fare quello che ti pare, lo devi alla gente che ha creduto in te.
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