Contributo al congresso del PD. Perché non basta il “Piano per l’Italia”

Una emergenza democratica senza precedenti

La fase congressuale straordinaria che il PD si appresta ad avviare ha un compito molto arduo e al tempo stesso essenziale per l’Italia: delineare un progetto politico e programmatico credibile, in grado di restituire fiducia e speranza ad un Paese stremato. L’Italia è angosciata dalla gravità della sua crisi e dalle incertezze che oscurano il futuro delle nuove generazioni. La situazione sociale è talmente grave da favorire la formazione di un livello elevatissimo di consenso – come non si vedeva dagli anni precedenti alla II guerra mondiale – verso una destra estrema, rozza, becera, xenofoba e nazionalista, ormai ben al di sopra del 40% dei voti. Una emergenza democratica senza precedenti nella storia della Repubblica. Certo in passato trame e poteri occulti sono stati un tratto permanente della nostra storia, hanno condizionato e messo in pericolo più volte la tenuta della democrazia: dai diversi tentativi di colpi di stato; dalla strategia della tensione alimentata dal terrorismo stragista di estrema destra (a partire dalle bombe di piazza Fontana fino a quelle del treno Italicus e della stazione di Bologna); agli anni di piombo del terrorismo rosso; alla strategia stragista della criminalità organizzata, strettamente connessa con le altre trame eversive e con il ruolo svolto da settori deviati dei servizi segreti e da una certa massoneria collegata a potenze straniere e sempre presente nei grandi scandali finanziari ed economici. Ma allora il sistema democratico italiano poteva contare su un consenso di massa, sul ruolo di partiti organizzati e radicati nella società, di organizzazioni sindacali dotate di grande capacità di mobilitazione, di una classe operaia unita, forte e consapevole del suo ruolo nella società e nella politica. Un arco di forze politiche e sociali largamente maggioritario, unito sui valori della resistenza antifascista e della Costituzione repubblicana. Oggi i rischi che corre la democrazia rappresentativa sono diversi ma forse più pericolosi perché è molto cambiato il contesto politico e sociale. Infatti, in questo tumultuoso inizio del nuovo secolo, è la reazione a poter contare  su un grande consenso di massa e a poterlo alimentare speculando sul malessere profondo prodotto da una crisi sistemica pericolosissima che è al tempo stesso: crisi economica e finanziaria; crisi della politica e dei corpi intermedi; crisi di una società sempre più frammentata e dilaniata da una cultura individualista imperante; crisi dello stato e della democrazia; crisi nel rapporto tra un certo modello di sviluppo e l’ambiente con pericoli seri e imminenti per la stessa sopravvivenza dell’umanità, come l’accelerazione dei cambiamenti climatici dimostra.

Emergenza demografica e diseguaglianze sociali alle stelle

L’Italia è l’unico dei grandi Paesi della zona euro a non aver ancora recuperato i livelli di PIL del periodo precedente la grande recessione. In 10 anni il PIL reale pro-capite è diminuito di 2000 euro (oltre il 5%), portandosi largamente al di sotto della media europea. Gli effetti sono quelli di una vera e propria emergenza demografica. L’Italia, infatti, registra: un crollo della natalità; un calo dell’immigrazione – che ci sceglie solo come punto di approdo e di passaggio verso più ambite mete europee; una fuga paurosa all’estero di giovani qualificati e perfino di pensionati in cerca di paesi con un fisco più generoso nei confronti degli anziani. Nel 2018 sono nati oltre 70000 bambini in meno rispetto al 2008, registrando i minimi storici delle nascite dall’epoca dell’Unità d’Italia. Nel 2018 il numero degli ottantenni ha superato quello dei neonati. Calano anche le nascite da genitori immigrati. Il Censis ha inoltre segnalato che in dieci anni hanno lasciato il paese circa 800 mila italiani di cui più di 500 mila con meno di quaranta anni, tutti altamente qualificati, che vanno all’estero per ottenere retribuzioni e funzioni adeguate al loro grado di specializzazione. Ciò non solo sottrae al Paese il frutto delle grandi risorse investite nel campo della formazione e della valorizzazione del capitale umano ma rappresenta, insieme alla riduzione del flusso di immigrati (in cerca di lavori che gli italiani e  gli europei non sono più disponibili a svolgere), un problema serissimo di sostenibilità del nostro sistema pensionistico e dello stato sociale nel suo complesso, già notevolmente ridimensionato nella qualità delle prestazioni da prima dello scoppio della crisi del 2008. Contemporaneamente hanno raggiunto livelli inauditi le diseguaglianze sociali. A metà 2019, come ha ricordato di recente una ricerca di Oxfam, in Italia l’1% più ricco detiene quanto il 70% della popolazione più povera sotto il profilo patrimoniale. Nell’ultimo ventennio la ricchezza dei più facoltosi è salita del 7,6%, quella del 50% della parte più povera si è ridotta del 36,6%. Oltre il 30% dei giovani occupati guadagna meno di 800 euro al mese, senza contare il livello di disoccupazione giovanile più alto d’Europa. Anche questo contribuisce a rendere molto difficile recuperare quel gap che separa ormai da decenni l’Italia dall’Europa sul piano della crescita.

 

La portata della sfida e la complessità della risposta

A rendere immane il compito del congresso è la portata e la complessità delle cause di questo malessere. In primo luogo gli effetti devastanti sulle classi medie – già duramente colpite nel tenore di vita da trenta anni di neoliberismo – della più grave crisi che l’Occidente abbia conosciuto dai tempi della II guerra mondiale. Una crisi originata dalla perdita di potere da parte della politica – incapace di globalizzarsi a fronte di grandi concentrazioni economiche e finanziarie cresciute a dismisura e libere di muoversi nel “villaggio globale”. La crisi della politica e degli stati nazione ha, infatti, determinato il ripristino del primato del mercato e della logica del mero profitto come unici regolatori del modello di sviluppo e del modello dei consumi. In secondo luogo i cambiamenti straordinari intervenuti nella economia e nella società, nelle comunicazioni e nella divisione internazionale del lavoro, nel nostro modo di lavorare, di studiare, di vivere. Basta pensare agli effetti dell’innovazione tecnologica, accelerata dall’avvento delle tecnologie digitali, che ha sottratto milioni di persone dal loro “stato di comfort”, determinando uno spaesamento in larghi strati di opinione pubblica – riconducibile all’impossibilità di riconoscere ed interpretare i meccanismi che regolano l’economia e la vita quotidiana – e accentuando particolarismi e pulsioni individualistiche su cui lavora la nuova destra per scardinare il sistema democratico. Tra l’altro, mentre siamo ancora in ritardo nel rispondere alle sfide poste dalla rivoluzione digitale un’altra grande rivoluzione tecnologica e industriale si prepara a cambiare radicalmente il mercato del lavoro e le nostre abitudini di vita: quella indotta dalla tecnologia 5G – la quinta generazione della comunicazione mobile – e dall’intelligenza artificiale. Molti lavori sono destinati a scomparire e questa volta anche nel mondo delle professioni intellettuali. La tecnologia 5G collegherà ogni cosa e i robot sostituiranno sia lavori di routine, sia lavori intellettuali, in tutti i campi: dalla industria ai servizi; dalla sanità alla finanza; dalla produzione alle reti distributive; dalla ricerca alla formazione. Gli effetti saranno enormi. Per l’industria si registrerà una diminuzione dei prezzi alla produzione. Ma si indeboliranno ulteriormente il potere sindacale e il potere d’acquisto dei lavoratori, con conseguente rallentamento dei consumi. Cambieranno ancora i rapporti di forza tra le diverse aree geografiche a favore soprattutto dell’Asia. Certo se molti lavori saranno distrutti altri saranno creati ma con un notevole saldo negativo di posti di lavoro persi. Tutto ciò prolungherà questa fase di bassi tassi, bassa crescita e bassa inflazione con la conseguenza che la crescita sarà sempre più inadeguata rispetto al potenziale produttivo e ciò accentuerà le spinte protezionistiche e le tensioni commerciali e valutarie già in atto. E’ lo scenario della stagnazione secolare, già da tempo ipotizzato a causa del processo di finanziarizzazione dell’economia, del ruolo quasi esclusivo assegnato alla politica monetaria nella regolazione del ciclo economico. Dopo il fallimento del neoliberismo si prospetta un altro scenario di lungo periodo destinato ad accrescere ulteriormente la disoccupazione e le diseguaglianze sociali. A meno che non si riesca a ricostruire il primato della politica e un ruolo degli Stati sovranazionali, di un nuovo ordine internazionale, nella regolazione del mercato e dei flussi di capitale.

Perché non basta il piano per l’Italia di domani

Insomma la crisi italiana è parte di una più ampia crisi dell’Occidente le cui cause non sono minimamente affrontabili attraverso politiche nazionali. Può apparire come una costatazione banale ma in realtà bisogna dire con chiarezza che a questa consapevolezza, quando c’è, non si può rispondere riproponendo le vecchie classiche politiche keynesiane impraticabili in un contesto esclusivamente nazionale.   Lo stesso “Piano per l’Italia di domani”, presentato di recente alla stampa da Zingaretti ed Orlando, che pure contiene indirizzi innovativi e interessanti, è in larga parte attuabile solo dentro una strategia politica e programmatica di livello sovranazionale. Il piano si articola in cinque obiettivi: rivoluzione verde; semplificazione; Equity act; più conoscenza; più sanità e assistenza. Se escludiamo gli obiettivi della semplificazione e del piano sanitario e assistenziale, che richiedono riforme pienamente nelle mani del governo e del parlamento nazionale – dalla riforma delle autonomie locali a quella della pubblica amministrazione e della giustizia – nessuno degli altri grandi obiettivi è raggiungibile attraverso la sola azione del governo nazionale. La rivoluzione verde per essere credibile richiede una riconversione ecologica delle fonti energetiche e dell’economia tale da esigere investimenti giganteschi in tempi utili a fermare la minaccia dei cambiamenti climatici. Per ragioni ormai evidenti a tutti non c’è nessuna sfida più globale di questa, in quanto richiede il massimo di cooperazione internazionale, mentre sappiamo che fine hanno fatto gli accordi di Parigi, pur già così limitati rispetto agli allarmi crescenti che vengono dal mondo scientifico. La lotta alle diseguaglianze per poter incidere necessita di una riforma fiscale che formalmente è nella piena sovranità dei governi nazionali ma che in realtà è condizionata pesantemente dal potere di ricatto fiscale in capo alle grandi multinazionali, ormai in grado di eludere le tasse spostando a loro piacimento la residenza fiscale e stipulando accordi “privilegiati” con gli stati nazionali. E quando una fetta rilevante della ricchezza prodotta sul territorio sfugge alla potestà impositiva degli Stati, parlare di un fisco progressivo che privilegi i ceti medio bassi diventa una chimera per chi deve fare i conti con le esigenze reali di finanziamento dello stato sociale e della pubblica amministrazione. Inoltre con il potere di stampa della moneta, praticamente illimitato, in capo alle Banche, e con la politica monetaria non convenzionale – ormai quasi unica vera arma per regolare il ciclo economico e contrastare le crisi – nella piena autonomia delle banche centrali, l’accumulazione di capitale viene garantita, ancor più di prima dello scoppio della crisi, dalle attività finanziarie che non dagli investimenti produttivi e dalla valorizzazione del lavoro. Non a caso nella ripartizione del PIL la rendita finanziaria cresce da decenni a danno dei redditi da lavoro. Senza una tassazione unica delle imprese in Europa e senza una riforma della finanza e della politica monetaria – che non può non avere una portata sovranazionale – non ci sono le condizioni minime per redistribuire la ricchezza e garantire equità sociale. Quanto alla conoscenza come fattore fondamentale per promuovere la crescita è ormai evidente che il petrolio della quarta rivoluzione tecnologica e industriale è rappresentato dai Big Data. Una partita ormai persa sia dall’Italia che dall’Europa negli anni ’80 e ’90, proprio per la frammentazione degli investimenti in ricerca tra i vari paesi del continente europeo. Basta vedere la nazionalità dei grandi giganti del web e dei principali motori di ricerca per capire che oggi è tutto nelle mani degli USA e della Cina: da Apple a  Microsoft a Huawei, da Google a Alibaba, da Amazon ai grandi marchi dello E-commerce. Per non parlare della tecnologia 5G su cui ormai il primato è della Cina e non a caso Trump cerca di correre ai ripari con la guerra commerciale. E’ evidente che solo una politica comune europea può consentire ai Paesi del continente di recuperare terreno e ritrovare un ruolo.

Una sola via per fermare la destra nazionalista

La forza dell’ondata della nuova destra nazionalista e protezionista sta, dunque, nel fatto che appare da tempo come l’unica forza che vuole contrastare la globalizzazione neoliberista. E le classi medio basse attribuiscono, giustamente, al liberismo e alla concorrenza internazionale la causa del loro malessere e della mancanza di futuro. Certo questa destra offre loro solo una illusione, perché è evidente – o dovrebbe esserlo – che non è possibile una chiusura nazionalista in un Mondo ormai pienamente integrato, nel quale il commercio internazionale determina intorno alla metà del PIL mondiale, per cui l’economia e il benessere di ciascuna nazione dipende moltissimo dal rapporto tra importazioni ed esportazioni di beni, servizi e flussi di capitale. Così come è palese che nessuna delle grandi sfide che ha davanti l’umanità – dai mutamenti climatici, alle grandi migrazioni, alle diseguaglianze sociali – può essere affrontata in una angusta dimensione nazionale. Tuttavia i fatti ci dicono che dal 2016, con la vittoria della Brexit e di Trump, è proprio la prospettiva protezionista ad essere favorita da questi ceti sociali. Una tendenza che in entrambi i Paesi sembra consolidarsi, alla luce delle recenti elezioni politiche in Gran Bretagna e dell’andamento della campagna elettorale per le presidenziali in USA del prossimo autunno. Fin qui in Europa questa ondata nazionalista è stata contenuta. Ma fino a quando si potrà resistere se non si accelera sul terreno di una effettiva integrazione politica? Insomma se l’Europa continuerà ad essere solo libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali – pur con l’aggiunta di una moneta comune che almeno tiene bassi gli spread e i tassi di interesse – ma sarà priva di una politica fiscale e sociale comune, il populismo e nazionalismi sono destinati a vincere. Spetta soprattutto alla sinistra e alle forze di progresso individuare un’alternativa credibile – e compatibile con una prospettiva di democratizzazione della globalizzazione – alla dittatura dei mercati e del grande capitale.

Quale congresso

Ecco perché serve un congresso straordinario che sia concentrato sulla puntuale lettura della realtà, della “Grande trasformazione” in atto, sulla proposta politica e programmatica, e che riarticoli la vita interna e promuova un nuovo gruppo dirigente su queste basi. Guai, invece, a limitare il confronto sulle alleanze politiche finalizzate alla partita delle elezioni regionali e del governo nazionale. Dovrebbe ormai esser chiaro che il ribaltone di governo non è servito a limitare la forza di Salvini e della nuova destra, che anzi dalla opposizione riescono meglio a cavalcare il malcontento verso una Europa rimasta in mezzo al guado e ancora tentata a restarvi, come la discussione in atto in questi giorni sul bilancio comunitario dimostra. Serve produrre una strategia politica di portata europea. Serve delineare un nuovo orizzonte nella lotta per l’uguaglianza. Serve un piano di lavoro stringente per promuovere una “alleanza per una Nuova Europa” intorno a obiettivi di breve e medio termine, in grado di mobilitare l’opinione pubblica e di incidere nelle sedi comunitarie. La crescita dell’estrema destra in Europa e l’uscita dal suo isolamento in Germania – con il caso della Turingia che ha prodotto una crisi di direzione politica nella CDU – ci dicono che il tempo è decisivo. Abbiamo davanti una sola via stretta e di grande complessità. E’ la via maestra. Non tentare di percorrerla significherebbe rassegnarsi ad una sconfitta certa.

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