Le consultazioni per la formazione del nuovo governo offrono uno spaccato della politica italiana non meno sconcertante di quello emerso dalla recente campagna elettorale. Dopo la gara a chi la sparava più grossa assistiamo a un confronto senza né capo né coda, con i 5 stelle, oggi maggior partito del Paese, che arrivano al punto di nominare esperti incaricati di valutare i punti in comune tra il loro programma e quelli, agli antipodi, della lega e del PD. Neppure le nubi che si addensano sullo scenario internazionale riescono a consigliare responsabilità e buon senso e a spostare la discussione sui problemi reali da affrontare. Eppure si tratta di nubi minacciose che possono scatenare tempeste in grado di fare molti danni, in particolare a quei paesi con bassa produttività ed alto debito quale noi siamo. Da alcuni anni viviamo in una fase di crescita garantita da una politica monetaria espansiva, basso costo dell’energia, bassa inflazione e forte riduzione della spesa per interessi sul debito. Ora tutto questo rischia di essere messo in discussione. La normalizzazione della politica monetaria è infatti cominciata, anche se con ritmi diversi tra USA e Europa. Certo fin qui senza grandi strappi, garantendo un approccio accomodante, attento a non creare problemi alla ripresa globale finalmente sincronizzata in tutte le aree economiche importanti del mondo, per la prima volta dallo scoppio della crisi del 2008. Da alcuni mesi però le cose stanno cambiando per effetto di diversi fattori. Il primo è riconducibile alla politica protezionista di Trump. E’ vero che fino ad ora il presidente degli Stati Uniti non ha portato fino in fondo tutte le sue minacce rivolte alla Cina e alla stessa Europa. Tuttavia i recenti dazi sull’alluminio, che è una materia prima molto usata per gran parte dei prodotti che maggiormente consumiamo, hanno fatto schizzare in alto i prezzi. Poi sono arrivate le sanzioni nei confronti della Russia che stanno alimentando gli effetti che i dazi hanno già innescato sui prezzi e sulle vendite. Ma non è tutto. Le tensioni in Siria, le sanzioni annunciate nei confronti dell’Iran, il caos politico del Venezuela, stanno provocando un forte aumento del prezzo del greggio, ormai giunto ai massimi dal 2014. Neppure il tetto dei 75 dollari al barile, che naturalmente rilancia la produzione di schale oil negli USA, sta arrestando il calo delle scorte. Il rischio che tutto ciò comporta è quello di un aumento dell’inflazione superiore all’attesa. E’ vero che al momento segnali in tal senso vi sono negli USA ma non in Europa. Tuttavia se non si interviene, per mettere un freno ai meccanismi messi in moto, la situazione può diventare estremamente difficile. Non a caso stamane il Fondo Monetario Internazionale ha elevato un monito sui rischi di una recessione da bolla finanziaria. Le politiche espansive delle banche centrali infatti hanno consentito in questi 10 anni di far crescere il debito pubblico e privato del mondo fino alla cifra record dei 233.000 miliardi di dollari, garantendo al tempo stesso una spesa per interessi di gran lunga inferiore a quella che stati, imprenditori e famiglie sostenevano a fronte di un debito molto più basso. Per avere una idea degli effetti di questo fenomeno basta dire che negli USA, a fronte di un aumento considerevole del debito dal 2008 ad oggi, la spesa per interessi sul debito è scesa dal 34% al 18% del PIL. Insomma la bancarotta dell’economia globale è stata evitata per questo e questa è la realtà che ci consente di rimanere a galla. Se l’inflazione dovesse non crescere nella misura necessaria ad allontanare il rischio deflazione ma ad un ritmo tale da produrre necessariamente un aumento considerevole dei tassi, l’aumento della spesa per interessi sui debiti, sia pubblici che privati, potrebbe causare una recessione da bolla finanziaria simile a quella del 2008. Questo è il significato chiaro dell’allarme lanciato oggi dal FMI. E non ci vuole molto a capire che i primi a cadere, di fronte al realizzarsi di uno scenario come quello paventato, saremmo proprio noi. E non solo per l’alto livello del debito pubblico italiano, su cui ormai siamo inseguiti dagli stessi USA. Il caso vuole che oggi sia stata diffusa un’altra notizia che fa riflettere: se nel 2008 il reddito pro capite, a parità di potere d’acquisto, degli italiani era del 10% più alto di quello degli spagnoli, oggi la Spagna registra 140 dollari di reddito pro capite in più dell’Italia, grazie ad una crescita doppia che quel Paese sta registrando negli ultimi anni rispetto al nostro. Insomma se nella fase positiva che ci stiamo lasciando alle spalle abbiamo perso terreno rispetto agli altri paesi europei, cosa può accadere se il vento continuerà a cambiare direzione? Ciò che preoccupa non è la constatazione del livello miserevole raggiunto dalla nostra politica. Esso, infatti, esprime la cifra dello sbandamento degli italiani in un momento così delicato. Insomma il quadro sta cambiando ma l’Italia appare sempre prigioniera dei suoi ritardi storici. “O mia patria si bella e perduta”.
