
Ho sentito Nicola Russo l’ultima volta intorno alla mezzanotte del 25 gennaio scorso. Era nell’ambulanza, in fila, fuori al pronto soccorso dell’Ospedale Cotugno, in attesa di essere ricoverato a causa di una polmonite provocata dal Covid. In quel momento il saturimetro segnalava un forte abbassamento della saturazione di ossigeno. Io cercavo di confortarlo dicendogli che al Cotugno sarebbe stato in buone mani. Ma Nicola sapeva bene i rischi cui andava incontro e mi ripeteva “questa cosa non doveva accadere”. Da alcuni anni soffriva di una malattia autoimmune. La mattina dopo gli inviai un messaggio al quale non ha potuto più rispondere. Era stato intubato nel corso della notte. Stamattina la triste notizia. Non ce l’ha fatta. Con Nicola se ne va un pezzo della mia vita e della vita di tanti compagni che hanno fatto parte di quella straordinaria e irripetibile comunità umana e politica che è stato il PCI. La storia di Nicola è comune a quella di tanti di noi: il Sessantotto, la scuola, la passione per la politica, l’esperienza in una sezione molto forte e popolare di un comune con una rilevante presenza di classe operaia (in quegli anni cresciuta nelle aree di nuova industrializzazione) come lo era la Capodrise degli anni Settanta, che esprimeva non a caso una amministrazione di sinistra. Subito dopo il diploma una fase di esperienza di lavoro in una fabbrica della Germania, insieme all’amico di sempre Franco Capobianco, e poi la rinuncia ad ogni altro impegno di studio o di lavoro per inseguire il sogno di una società migliore, più equa e più giusta, dedicandosi anima e corpo all’impegno politico totalizzante, a tempo pieno, come lo era quello di un “rivoluzionario professionale”, di funzionario di una federazione del Mezzogiorno del Partito Comunista Italiano. Quel partito per noi era tutto, veniva prima di ogni altra cosa. Prima della famiglia. Prima di noi stessi, sempre pronti a qualsiasi sacrificio per servire la causa comune. Nicola fu uno dei giovani “quadri” chiamati a ruoli di responsabilità e di direzione politica da Peppino Capobianco nei primi anni Settanta. Peppino era tornato a Caserta a dirigere la Federazione per promuovere quel rinnovamento dell’apparato e dei gruppi dirigenti ai vari livelli, che Enrico Berlinguer, appena eletto segretario generale del PCI, aveva voluto con grande determinazione per aprire il partito alle istanze antiautoritarie e alle rivendicazioni di nuovi diritti che avevano attraversato l’Italia negli anni dell’esplosione della contestazione giovanile, del movimento studentesco, cui era seguito l’autunno caldo delle rivendicazioni della nuova classe operaia delle grandi fabbriche. Nicola aveva cominciato la sua attività lavorativa nella federazione casertana collaborando per un breve periodo come corrispondente delle pagine regionali de l’Unità, poi era entrato nella segreteria provinciale per occuparsi della commissione operaia e poi della commissione Enti locali. Io lo conobbi proprio in quegli anni nei quali vivevo l’esperienza di giovanissimo consigliere comunale a Capua, in una fase nella quale, sotto la spinta della grande avanzata che nel 1975 il PCI segnò nelle elezioni amministrative in tutto il Paese, la DC aveva perduto la storica maggioranza assoluta ed era nata una delle prime amministrazioni di sinistra, in una delle città fondamentali di Terra di Lavoro. Poi diventato segretario della sezione cittadina del PCI ed entrato nel comitato direttivo della federazione del partito i nostri contatti divennero frequenti. Nel 1980 fui “prestato” al sindacato e qualche anno dopo entrai anche io nell’apparato della Federazione e nella segreteria provinciale. Da allora e per tutti gli anni Ottanta lavorammo fianco a fianco condividendo anche una comune appartenenza all’area riformista del partito. Sono tanti i ricordi che affollano ora la mia mente. Il primo, molto nitido, risale all’agosto del 1980 quando insieme partimmo da Caserta con un pullman organizzato dalla CGIL e con la bandiera della federazione casertana del PCI nelle mani, per partecipare alla grande manifestazione che si svolse a Bologna nei primi giorni successivi alla strage della stazione del 2 agosto. Fu una giornata di grande dolore, di rabbia e di forte tensione emotiva di un anno drammatico. Un anno funestato dal terrorismo politico mafioso, da numerosi attentati ed uccisioni di poliziotti, dirigenti di azienda, magistrati, politici, giornalisti, perpetrate da organizzazioni terroriste nere e rosse. Ma anche da attentati di mafia che proprio quell’anno inaugurava un nuovo ciclo di omicidi eccellenti, alcuni dei quali compiuti unitamente ai terroristi neri, a partire da quelli del procuratore di Palermo Gaetano Costa e di Piersanti Mattarella. Purtroppo erano eventi anticipatori di un decennio che avrebbe fatto segnare un salto di qualità nei disegni di destabilizzazione che interessavano da tempo l’Italia. Disegni che avevano mandanti molto in alto e che erano legati anche all’attività di servizi deviati e al clima internazionale di scontro tra i due grandi blocchi politici e militari contrapposti. La nostra esperienza di dirigenti politici non poteva non risentire di quel clima. Gli anni Ottanta non furono per noi entusiasmanti come lo erano stati in parte gli anni Settanta. Ricordo la tensione che si respirava nelle nostre sezioni, in particolare della zona aversana, di fronte all’escaletion delle organizzazioni camorristiche negli enti locali per il controllo degli appalti. E ricordo il coraggio di Nicola che non si sottraeva mai dagli incarichi che gli venivano affidati di seguire le situazioni più pericolose, le sezioni di partito più esposte. C’era poi un altro fronte di emergenza che impegnava particolarmente Nicola nella sua qualità di responsabile della commissione operaia della federazione: quello della crisi grave e diffusa dell’apparato industriale in conseguenza di un processo di deindustrializzazione, iniziato alla fine degli anni Settanta e collegato a processi di ristrutturazione tecnologica che investivano tutto l’Occidente, provocando una riduzione della forza lavoro, una caduta del peso politico della classe operaia e della forza organizzata del sindacato, con conseguenze non trascurabili sulle prospettive del nostro partito. Eppure trovammo la forza per non giocare solo in difesa. I primi anni Ottanta sono stati anche gli anni di una maturazione importante intervenuta nella federazione comunista di Caserta sul piano dell’elaborazione politica, dell’analisi delle trasformazioni della struttura economica, sociale e territoriale della nostra provincia. Una maturazione frutto di un dibattito impegnativo che coinvolse tutto il partito e tutte le organizzazioni di massa ad esso collegate, cui Nicola partecipo’ con grande impegno fornendo un contributo significativo. Il terribile terremoto del 23 novembre del 1980 era stato per noi un evento rivelatore dei grandi cambiamenti che negli anni precedenti avevano investito non solo l’apparato produttivo ma anche l’assetto urbanistico del territorio, la cui parte meridionale era ormai divenuta parte integrante dell’area metropolitana di Napoli. Una realtà che aveva bisogno di essere affrontata con politiche di governo capaci di impedire un destino da periferia metropolitana degradata e di delineare per Caserta e la sua provincia un ruolo nuovo nel processo di riorganizzazione e di riqualificazione dell’area metropolitana di Napoli – reso ancora più urgente dagli effetti di quel terremoto. I nuovi sistemi urbani, cresciuti per effetto di processi spontanei e disordinati di saldatura tra vecchi paesi agricoli, erano in una posizione strategica ideale per candidarsi a città medie di riequilibrio delle funzioni metropolitane di eccellenza. Fu questo nuovo orizzonte programmatico della sinistra casertana a dare forma e forza alle vertenze di zona aperte dal sindacato unitario. Vertenze territoriali nelle quali le lotte per la difesa dell’apparato produttivo si intrecciarono con quelle per la riqualificazione urbana costringendo le istituzioni locali, la Provincia, la Regione a cimentarsi con la sfida della programmazione e del governo del territorio. Se quel movimento non riuscì ad impedire un processo di deindustrializzazione – che era legato anche a ragioni di ordine internazionale, con la globalizzazione neoliberista destinata a cambiare la divisione internazionale della produzione e del lavoro – diede però i suoi frutti sul piano del processo di riorganizzazione dei servizi e delle funzioni su scala regionale, che fu avviato in quegli anni e vide l’area casertana destinataria di servizi e funzioni di eccellenza quali la stazione di smistamento di Marcianise, l’interporto, le sedi di gran parte delle facoltà Universitarie del II Ateneo della Campania, il Centro di Ricerche Aerospaziale e numerose attività di ricerca in settori fondamentali del nostro apparato produttivo. Era però sul piano politico generale che doveva arrivare per noi il colpo più duro. Dopo la fine della politica di unità nazionale – con cui il PCI aveva dato un contributo rilevante alla tenuta del Paese rispetto agli effetti di una dura crisi economica e della difesa delle istituzioni democratiche dall’attacco terroristico e mafioso – il partito fu impegnato ad elaborare una correzione di rotta cui, purtroppo, non riuscì a dare una prospettiva politica adeguata ai tempi nuovi e alla svolta storica che il processo di globalizzazione neoliberista imponeva a tutta la sinistra europea. Noi maturammo con troppo ritardo l’approdo alla socialdemocrazia europea e questa, dal canto suo, aveva ormai esaurito il suo ruolo di costruttrice del nostro originale stato sociale, svolto dal dopoguerra in poi, senza riuscire ad imprimere il necessario impulso alla prospettiva di costruzione di un vero stato europeo. Ritardi che dovevamo pagare – tutte le anime della sinistra – con la sconfitta storica dalla quale ancora fatichiamo ad uscire. La morte di Enrico Berlinguer accentuò la nostra crisi. Nicola fu eletto segretario della Federazione di Caserta nella primavera del 1985, nel pieno della tempesta politica che si era aperta. A me toccò il ruolo di responsabile dell’organizzazione della federazione. La prova che ci attendeva fu durissima. Alle difficoltà di ordine generale – che provocavano divisioni profonde negli organismi dirigenti – si aggiungevano quelle causate dal nostro orientamento riformista, poco apprezzato in un partito che invece accentuava la fisionomia anticapitalista in contrasto con il compromesso Keynesiano di stampo socialdemocratico e questo rendeva ancora più complicato il dibattito nella federazione casertana. La foto di Nicola che ho ritrovato stamattina ci ritrae alla presidenza del convegno dell’otto luglio del 1995, sui quaranta anni dalla ricostruzione della federazione comunista casertana, cui partecipò Giorgio Napolitano, che di quella federazione era stato segretario dal 1951 al 1956. Fu credo l’ultima bella, tranquilla e condivisa iniziativa di un biennio difficile caratterizzato da polemiche e scontri interni al termine del quale Nicola decise di rassegnare le dimissioni da segretario. Tentai di farlo desistere dalla decisione ma Nicola aveva perso fiducia nel gruppo dirigente nazionale e insieme all’incarico di segretario della federazione lasciò anche il lavoro di funzionario di partito. Qualche anno dopo dovevo maturare anche io la stessa decisione. Un’epoca stava finendo e con essa il sogno e le speranze che ci avevano sostenuto in un lavoro durissimo che certamente aveva consentito ad entrambi di esercitare un ruolo importante, un ruolo di responsabilità e di visibilità, pur in un quadro di precarietà economica che solo una grande passione poteva consentire di sopportare. E qui emerge un altro tratto della personalità di Nicola. Essere stato segretario provinciale di un grande partito come il PCI non era a quel tempo cosa di poco conto. Nicola non era certo un signor nessuno. Avrebbe potuto bussare a tante porte, comporre molti numeri della sua fitta agenda telefonica per chiedere una mano. Ma non lo fece. Preferì ripartire da zero ed aprì a via Roma a Caserta uno studio di mediatore creditizio e assicurativo. Poi nei primissimi anni Novanta con la nascita dell’albo dei consulenti finanziari ci preparammo entrambi per l’esame e ci ritrovammo di nuovo insieme ad esercitare una professione che allora cominciava a muovere i primi passi. Nicola Russo è stato una bella persona, un uomo giusto che non meritava di morire così presto ed in questo modo atroce. Nessuno potrà, però, cancellare la sua lezione di stile e di vita che continuerà ad accompagnare tutti quelli che lo hanno conosciuto ed apprezzato. Non è stato facile per me in questo momento raccogliere le idee per questo ricordo doveroso e sentito. Il dolore che provo è reso più acuto dalla impossibilità di partecipare ai suoi funerali domattina alle 10 a Capodrise perché sto ancora vivendo – spero gli ultimi giorni – di positività al Covid. Alla cara moglie Roberta, ai figli Walter e Valeria, al fratello Salvatore, alle sorelle Caterina, Giovanna e Giuseppina un grande e forte abbraccio. Ciao Nicola riposa in pace. Noi non ti dimenticheremo mai.

L

Grande persona che ha scritto importanti pagine della nostra storia.
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