Finisce il mandato di Draghi ma non è finita la crisi (e non per colpa sua)

Draghi ha tenuto oggi l’ultima conferenza stampa del suo mandato. A novembre si insedierà infatti il nuovo presidente della BCE, Christine Lagarde. Nella conferenza ha comunicato le decisioni del Board, riunito in mattinata, di piena conferma dell’approccio accomodante che la politica monetaria ha garantito sotto la sua guida: tasso di interesse principale fermo allo zero, quello sui depositi negativo a meno 0.50, nuovo programma di acquisto di titoli da novembre per 20 miliardi di euro al mese.  L’occasione ha dato il via ad un dibattito sul bilancio dell’era Draghi e sulle prospettive della politica monetaria. Difficile non riconoscere a Mario Draghi il merito di aver salvato l’euro e l’Europa. Ricordiamoci, infatti, che la Grande Recessione del 2008 era partita dagli USA che tuttavia nel corso del 2009 erano riusciti a fermare la caduta ed erano tornati a crescere fin dal 2010 ad un ritmo superiore al 2% l’anno. Un risultato frutto della tempestiva decisione assunta dalla FED nei primi mesi del 2009 di varare una stampa straordinaria di moneta, destinata all’acquisto di titoli obbligazionari, per un importo di 90 miliardi di dollari al mese e un totale di 4500 miliardi di dollari. Alla decisione di politica monetaria della FED era inoltre seguita quella del governo federale che con Obama cominciò ad utilizzare anche la leva fiscale, prima attraverso il varo di una riforma sanitaria, che garantiva l’assistenza alle fasce più deboli, poi con un investimento di 800 miliardi di dollari in economia. Una manovra di stampo Keynesiano, giudicata da molti insufficiente per dare all’economia a stelle e strisce la scossa necessaria dopo una recessione di quelle dimensioni. Una crescita annua del 2%, infatti, era oggettivamente al di sotto dei livelli di crescita generalmente registrati negli anni passati dopo crisi anche meno importanti di quella che è stata giudicata la peggiore dai tempi della fine della seconda guerra mondiale. Ma si è trattato pur sempre di una crescita molto lunga che ha visto gli indici azionari toccare i massimi di sempre.  Le cose andarono diversamente in Europa dove, anziché rispondere con la leva monetaria e quella fiscale, si preferì scegliere la strada dell’austerità e del riequilibrio dei conti pubblici, imponendo a tutti, con il Fiscal Compact, il pareggio di bilancio, i tagli allo stato sociale, la deregolamentazione del mercato del lavoro. Le conseguenze sono note: la crisi del debito sovrano del 2011, partita dalla Grecia e arrivata poi in Italia e in misura minore in Spagna, un forte deterioramento delle condizioni economiche, l’aumento della povertà e della disoccupazione. A fine 2014. mentre gli USA già segnavano il terzo anno consecutivo di crescita, l’Europa era sull’orlo della deflazione con il rischio fortissimo di veder avvitare la crisi su se stessa. Furono allora le parole di Draghi, nel pieno della crisi del debito sovrano – “la BCE è pronta a fare qualsiasi cosa per salvare l’Euro e credetemi sarà abbastanza” – e poi la sua capacità di sostenere le banche, fino al varo del programma di acquisto di titoli, nonostante il dissenso della Banca Centrale tedesca, ad evitare il peggio e a riportare un minimo di crescita nel continente europeo. Eppure non sono mancate oggi le critiche alla sua gestione. Critiche che erano divenute già pesanti di fronte alla recente decisione di ritornare sui tassi negativi e sul programma di acquisto titoli in presenza di un preoccupante rallentamento della crescita globale legato alle incertezze suscitate dalla politica protezionista di Trump e dalla guerra dei dazi in atto verso la Cina e la stessa Europa. A Draghi si contesta in sostanza di insistere sulla strada dei tassi negativi e degli allentamenti quantitativi che determinano effetti collaterali pesanti sulla redditività delle banche e soprattutto  su assicurazioni e fondi pensioni, senza riuscire a garantire una reale fuoriuscita dalla crisi. Ma oggi davvero si è andati oltre ogni limite. Addirittura nel corso della trasmissione odierna di “Focus Economia” su Radio 24, l’economista Sapelli è giunto ad accusare Draghi di aver prodotto un disastro con i tassi negativi e di non aver fatto nulla per incidere maggiormente sulla crescita. Ma come si può arrivare a sostenere che una crisi così grave può essere affrontata dalla sola politica monetaria? In realtà il divario di crescita che si è registrato in questi anni tra USA ed Europa è legato non solo al ritardo di cinque anni nel varo del QE europeo ma anche e soprattutto alla mancanza assoluta di politiche fiscali da parte dei governi. Se negli USA il prestatore di ultima istanza (la Banca Centrale) è intervenuto tempestivamente, mentre è stato insufficiente con Obama e sbagliato con Trump l’intervento dell’investitore di ultima istanza (il governo federale) – in Europa la mano pubblica è venuta meno non solo evitando di usare la leva fiscale ma addirittura adottando politiche anticicliche. Certo la politica monetaria da sola non può farci uscire dalla crisi. Lo stesso Draghi ha ribadito anche oggi un concetto ripetuto più volte nel corso del suo mandato. La politica monetaria da sola non basta. La politica monetaria garantendo liquidità al sistema riduce il peso degli interessi sul debito pubblico e determina spazi per politiche fiscali che spetta ai governi realizzare. Solo attraverso l’intervento congiunto del prestatore e dell’investitore di ultima istanza è possibile ritornare su livelli di crescita in grado di garantire la piena occupazione. In Europa invece ha agito un solo attore perché i governi dei Paesi che registrano un surplus finanziario, come la Germania, si guardano bene dall’abbandonare la politica del deficit zero, mentre i paesi con alto livello di debito hanno le mani legate in assenza di passi in avanti decisi sul piano di una reale integrazione politica dell’Europa e di una politica comune di investimenti pubblici orientati alla crescita.  Tuttavia chi critica Draghi dovrebbe chiedersi dove saremmo ora senza la politica monetaria accomodante garantita durante il suo mandato. Per fortuna le decisioni comunicate oggi ai mercati dalla BCE assicurano nei prossimi mesi almeno le condizioni minime per tentare di reggere di fronte alla difficile congiuntura economica internazionale. L’incertezza che accompagna la politica commerciale mondiale ormai da due anni ha già avuto effetti importanti sull’economia reale. Si può dire che il settore manifatturiero sta già attraversando una fase di recessione, non solo in Europa, che di certo è l’area che soffre maggiormente, ma anche in Cina e negli USA. Lo hanno confermato i dati macroeconomici delle ultime settimane: l’indice IFO tedesco, che misura la produttività aziendale, sceso ai livelli del 2008; l’indice manifatturiero americano sceso sotto i 50 punti, il dato sul PIL Cinese la cui crescita è scesa al 6%, il livello più basso dal 1992. A tenere ancora è il settore dei servizi, confermando una tendenza, ormai comune  ai paesi sviluppati e a molti paesi emergenti, che vede la crescita del PIL sempre meno legata alla manifattura e sempre di più ai servizi. Ma cosa accadrà al commercio internazionale se sul fronte della trattativa USA Cina si accumuleranno ulteriori tensioni? Il quadro è preoccupante ed è quello che ha spinto le banche centrali di tutto il mondo a rivedere la scelta di avviare un rientro dalle politiche espansive degli ultimi dieci anni, a partire dalla Federal Reserve USA che non solo ha fermato i rialzi dei tassi ma è tornata a tagliarli per la prima volta dopo 10 anni. Certo la politica monetaria non basta. Serve un passo avanti della politica che finalmente affronti le cause di fondo della crisi, a partire dal livelli insostenibili raggiunti dalla disuguaglianza sociale e dalla mancanza di un ordine internazionale in grado di garantire il governo dell’economia globale.Tuttavia in attesa che arrivi la terapia giusta sarebbe sbagliato rinunciare all’ossigeno che comunque continua a mantenere in vita il malato. Le critiche a Draghi in questo quadro sono incomprensibili. Bisogna sperare che la Lagarde sappia reggere il timone con la stessa fermezza di Draghi e la sua determinazione a “mai gettare la spugna”.

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