In memoria di Antonio Bellocchio

Antonio Bellocchio non è più. La notizia, nel rispetto delle sue ultime volontà, è giunta a tumulazione avvenuta. Bellocchio, classe 1927, è stato uno dei più importanti esponenti di quella generazione che ha attraversato la tragedia della Seconda Guerra Mondiale e ha costruito dalle fondamenta il processo di emancipazione sociale e il tessuto della democrazia rappresentativa nel nostro Paese. Dirigente del partito comunista e del mondo contadino prima, Consigliere regionale della Campania nella prima legislatura dal 1970 al 1975, parlamentare della Repubblica di primo piano, dalla VII alla X legislatura, dal 1976 al 1992. Una lunga militanza politica vissuta da grande protagonista della vita politica e sociale di Terra di Lavoro, della Campania e dell’Italia. Sia Antonio Bellocchio che la mamma, Bice Spanedda, provenivano da famiglie borghesi di graduati. Il padre di Bice, Placido Spanedda Cossu, originario di Sassari, era arrivato a Capua per dirigere la stazione dei carabinieri della città. Il padre di Antonio era un maggiore dell’esercito morto di una malattia contratta durante una missione in Albania. A quel tempo Capua, anche se non era più la piazzaforte militare preunitaria – avendo perduto dopo il 1860 il ruolo di antemurale dell’allora città Stato napoletana – registrava ancora una presenza militare notevole, con diverse guarnigioni dell’esercito ospitate in ex complessi conventuali poi trasformati in caserme, l’Ospedale Militare, il Distretto, l’Aeroporto Salomone e innanzitutto il Pirotecnico Esercito. Una presenza massiccia che contribuiva a conferire alla città, sul piano culturale e politico, un segno conservatore. Ninotto, così lo hanno sempre chiamato gli amici, era figlio unico. Da ragazzo coltivava il sogno di diventare ufficiale dell’esercito per ripercorrere le orme di quel padre che non aveva mai conosciuto. Aveva frequentato con profitto lo storico Liceo Classico di Santa Maria Capua Vetere ed aveva, poi, superato positivamente la visita medica per iscriversi alla Scuola militare la Nunziatella nel corso dell’agosto del 1943, quando si trovò coinvolto, insieme alla madre, nel terribile bombardamento del 4 agosto che fu causa di danni incalcolabili al patrimonio storico di Napoli e di molti morti. Purtroppo gli sviluppi degli eventi bellici determinarono seri problemi alle attività della Scuola mlitare. I corsi della Nunziatella, già dal marzo del 1943, erano stati trasferiti a Benevento. Nel dicembre dello stesso anno i saccheggi effettuati dalle truppe tedesche in ritirata causarono la distruzione di tutto il materiale che vi era stato trasportato. Con l’arrivo degli alleati a Napoli, inoltre, la scuola subì un netto ridimensionamento. L’istituto fu declassato a liceo-convitto e l’edificio occupato in buona parte dal comando inglese e da truppe palestinesi. I corsi ripresero parzialmente solo nel febbraio del 1944. Nell’ambito di questo processo di ridimensionamento della Nunziatella svanì il suo sogno. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale Capua – sede del Pirotecnico Esercito e nodo strategico di comunicazione viaria e ferroviaria – fu colpita da diverse incursioni aeree. In uno dei mitragliamenti aerei  trovò la morte un giovane amico di Antonio Bellocchio, Alberto Luna, colpito pochi minuti dopo la conclusione di una partita di calcio che Ninotto aveva dovuto lasciare prima del termine per raggiungere la mamma. Nel pomeriggio fu chiamato presso l’Ospedale Palasciano per il riconoscimento del cadavere del suo amico. Non fu l’unico trauma che subì in quel terribile 1943. Durante un rastrellamento rischiò di essere fucilato dai tedeschi, che, a causa di una statura ingannevole sulla sua effettiva età, credevano fosse un disertore. A salvarlo fu la disperazione della mamma, aggrappatasi alle gambe del figlio e trascinata per diversi metri da un ufficiale tedesco, che per fortuna finì per impietosirsi e decise di lasciarlo andare. Inoltre la scelta della famiglia di “sfollare” nelle campagne di Sant’Angelo in Formis non gli risparmiò di vivere in prima persona il bombardamento più pesante subito dalla città il 9 settembre, con il suo terribile carico di morti, oltre 1000, e di distruzione del patrimonio edilizio (oltre il 75%). Convinti che con la firma dell’armistizio la guerra fosse finita, quella mattina in tanti rientrarono in città e ad Antonio Bellocchio capitò di dover tirare fuori dalle macerie la mamma, finita sotto i resti e i calcinacci dell’ufficio postale, per fortuna senza subire gravi conseguenze.  La sua scelta di chiedere la tessera comunista fin dall’inverno del 1943, fu innanzitutto una reazione al disastro che il fascismo aveva causato al Paese ed in particolare ai giovani. Ma un peso determinante lo ebbero anche i suoi rapporti molto stretti con Alberto ed Edelweiss Iannone, due intellettuali di profonda cultura marxista che avevano tenuto vivi in città gli ideali della sinistra negli anni bui del ventennio, contribuendo a formare una parte rilevante della futura classe dirigente della sinistra capuana e di Terra di Lavoro. Dopo la liberazione di Capua avvenuta il 6 ottobre del 1943 Antonio Bellocchio, a soli 15 anni si iscrisse al PCI e divenne segretario della Federazione Giovanile Comunista. Alberto Iannone, che dopo la librazione divenne presidente del CLN cittadino e dirigente dell’ufficio di collocamento di Capua,  gli trovò un lavoro di cameriere, insieme al suo amico Enzo Raucci,  presso la mensa ufficiale degli inglesi che si erano sistemati nella Caserma Fieramosca e nel campo profughi.  Ninotto si trovava in condizioni economiche ristrette. La madre aveva una pensione assolutamente insufficiente. Qualche anno dopo fu tra i sostenitori dell’iscrizione alla sezione del PCI di Capua di Enzo Raucci. Lo ricordò in un discorso commemorativo tenuto nel 1985 al comitato federale del PCI Casertano dopo la morte di Enzo:  “ nel 1944 …la classe operaia era chiusa in una aristocratica solitudine, mal guardando e sopportando che intellettuali, studenti di origine borghese, o peggio con qualche neo paterno di adesione al fascismo – com’era il caso di Enzo – potessero contaminare la sua <purezza>. Fui uno dei due presentatori della domanda di Enzo, avendolo preceduto nel Dicembre del 1943 nella iscrizione al partito, e pur non avendo 18 anni, ero membro del direttivo della sezione, quale responsabile giovanile, ed occorsero tre riunioni per <piegare> l’ostinazione di alcuni, perché Enzo venisse accolto nel partito. Come sempre accade, ironia della sorte, quelli che allora maggiormente si opponevano all’ingresso di Enzo, negli anni dal 1948 in poi, gli anni di Scelba, gli anni in cui nelle fabbriche i comunisti venivano licenziati, specie se lavoravano in fabbriche militari come quella del Pirotecnico, preferirono, nonostante il passato antifascista, ritirarsi dall’agone politico a vita privata». L’anno successivo Antonio Bellocchio entrò a far parte del Comitato di zona del Basso Volturno e del comitato federale della Federazione comunista di Caserta. Lo scontro fortissimo che si sviluppò nel partito e nel sindacato sulla gestione della Confederterra, giudicata troppo piegata a interessi personali, segnò il suo futuro politico. Segretario di quell’organizzazione era Francesco Parente, che nel settembre del 1944 aveva organizzato la lotta dei proprietari delle terre espropriate dall’ONC durante il fascismo, per strapparle ai concessionari, in prevalenza ex braccianti. Parente fu espulso dal partito, l’organizzazione commissariata. Commissario fu nominato un bolognese, Cesare Masina. Nino De Andreis, allora segretario della Federazione, lavorò per rinnovare profondamente l’organizzazione sindacale. Tra i quadri di partito da impegnare per promuovere un nuovo gruppo dirigente la scelta cadde anche su Bellocchio, che entrò a far parte della presidenza della Confederterra. Il sindacato, che faceva capo alla Cgil, organizzava sia braccianti, sia mezzadri, piccoli affittuari, piccoli proprietari, purché coltivassero direttamente la terra. Da allora Bellocchio non ha mai più lasciato l’impegno sulla questione agraria, neppure nel corso delle sue esperienze istituzionali. E’ sempre rimasto membro degli organismi nazionali delle diverse organizzazioni contadine che nacquero dalla decisione di separare l’organizzazione dei salariati da quella dei coltivatori. Nel 1951 entrò a far parte dell’Associazione dei contadini del Mezzogiorno che, nel maggio del 1955, decise di dare vita, con la L ega delle cooperative agricole, all’Alleanza nazionale dei contadini. L’anno successivo le cooperative si tirarono fuori e decisero di costituire un’autonoma Associazione nazionale delle cooperative agricole. Dell’Alleanza contadini Bellocchio divenne presidente regionale della Campania e poi responsabile della commissione meri- dionale. Quando, poi, nel 1977 la Federmezzadri – che era rimasta nella Cgil perché la mezzadria era considerata più contratto di lavoro che non un residuo feudale da abolire – fu autorizzata a uscire dall’organizzazione sindacale, nacque, dall’unione con l’Alleanza dei contadini, la Confcoltivatori, che assumerà successivamente la denominazione di Confederazione italiana agricoltori (Cia). Le lotte agrarie di quegli anni furono solo una prima fase di un nuovo protagonismo delle masse che segnerà anche gli anni dal 1950 al 1953, caratterizzati da un’estensione del movimento e un forte inasprimento della repressione. Nel 1954 Bellocchio grazie all’impegno profuso nelle lotte dei mezzadri, affrontò la prima significativa esperienza di amministratore locale, partecipando da capolista del PCI alle elezioni amministrative del Comune di Pietravairano. Un comune nel quale il partito comunista stava crescendo, ma divisioni e contrasti insorti nella sezione rischiavano di compromettere il buon lavoro che era stato fatto. La spaccatura si era determinata fra il gruppo dei comunisti del centro medievale del paese e il gruppo della frazione, in espansione lungo la strada provinciale. Fu la sezione a chiedere, con una lettera alla Federazione provinciale del partito, di impegnare Antonio Bellocchio a capeggiare la lista. Egli, infatti, godeva di grande stima nella zona del vairanese perché, da dirigente della Confederterra, aveva guidato le lotte dei mezzadri dei fondi del principe Pignatelli, strappando un nuovo rapporto sul raccolto da dividere non più al 50 per cento ma al 53 per i mezzadri e 47 per il proprietario. Ninotto accettò l’invito e lavorò personalmente alla composizione di una lista in grado di unificare i due gruppi interni al Pci dentro una più larga alleanza con socialisti e personalità indipendenti. Fu eletto sindaco e questo gli evitò anche l’arresto per la denuncia ricevuta in seguito alle lotte condotte a Pietravairano e Torcino sulle terre del principe Pignatelli, che avevano determinato l’intervento del vice questore, di polizia e carabinieri. Ma le turbolenze interne al partito non riguardavano solo le sezioni locali. Anche la vita del gruppo dirigente provinciale del partito era segnata da forti tensioni. La situazione interna si stabilizzo con l’arrivo di Giorgio Napolitano, inviato da Giorgio Amendola a dirigere il partito casertano dal 1951 al  gennaio del 1957. Dopo Napolitano la direzione della federazione di Caserta fu affidata a due comunisti capuani. Prima Gaetano Volpe e poi Antonio Bellocchio che la guidò nel pieno della contestazione studentesca del 1968. Un anno segnato non solo dalle lotte degli studenti ma anche dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia che suscito il dissenso netto del PCI ma anche una discussione molto accesa sulla riformabilità del comunismo da cui scaturì la radiazione del gruppo del “Manifesto”, di cui facevano parte Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luciana Castellina, Lidia Menapace e Rossana Rossanda. Di quella fase delicata della segreteria provinciale di Bellocchio si ricorda la sua apertura nei confronti del movimento degli studenti ma anche la grande tolleranza nei riguardi del dibattito politico interno. La Federazione di Caserta, ricorda Peppino Venditto che aveva aderito al gruppo del “Manifesto”, fu una delle poche nelle quali non fu radiato nessun dirigente legato all’esperienza del Manifesto.  Con le elezioni politiche del 1976 ci fu un ricambio nella rappresentanza parlamentare del Pci della provincia di Caserta. A Enzo Raucci e Angelo Iacazzi subentrarono alla Camera dei deputati Antonio Bellocchio e Paolo Broccoli, vice segretario della Cgil di Caserta. Enzo Raucci fu chiamato nella direzione nazionale della Confcoltivatori, e successivamente, a causa di una crisi del gruppo dirigente regionale, a dirigere e ricostruire la Confcoltivatori della Campania. In sostanza vi fu un avvicendamento con Bellocchio che pur rimanendo legato all’organizzazione lasciò i ruoli di gestione dell’organizzazione. Antonio Bellocchio rimase deputato fino al 1992. Egli continuò in Parlamento il lavoro di Enzo Raucci nella Commissione Finanze e Tesoro, di cui fu vice presidente nel corso dell’VIII legislatura. Anche se continuò a partecipare alla vita politica e sociale della provincia di Caserta, fu sempre più preso dall’attività legislativa nazionale per il ruolo di rilievo che svolse nel gruppo parlamentare del suo partito sul tema della riforma tributaria, sulle normative in materia di dazi doganali, sul finanziamento di regolamenti comunitari, come dimostra l’elevato numero di interventi in aula e l’intensa attività in commissione. Un impegno nazionale sempre più a tempo pieno sia nella IX legislatura, quando assunse il ruolo di capogruppo nella commissione d’inchiesta sulla loggia massonica P2, sia nella X legislatura, in cui ricoprì la carica di vice presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Tina Anselmi, sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi. Bellocchio svolse il suo lavoro con una precisione e un’attenzione tali da meritare sulla stampa e tra i parlamentari l’appellativo di «Nero Wolf» della Commissione d’inchiesta. Non fu un caso se nell’attività di indagine per la comprensione del ruolo della strategia della tensione, furono impegnati parlamentari di esperienza. La crisi del sistema politico italiano è stata tale da consentire all’attività di condizionamento della vita pubblica da parte dei poteri occulti di diventare un tratto permanente della storia del Paese. La strategia della tensione è sopravvissuta alle stesse ragioni della sua nascita, legate, come è ormai noto, alla logica dei blocchi e alla delicata posizione geopolitica dell’Italia. Non a caso il condizionamento dei poteri occulti è continuato anche dopo la caduta del muro di Berlino. Nell’illustrare la mozione del Pci in Parlamento sulle risultanze dell’inchiesta sulla P2, nella seduta del 19 dicembre del 1985, Bellocchio mette bene in evidenza la sua visione del carattere di questo fenomeno, ancor oggiilluminante, insistendo sulla necessità di ricomporre un quadro d’insieme «cogliendo i legami e le interrelazioni fra disegni apparentemente autonomi e staccati l’uno dall’altro, ma in realtà ricchi di connessioni e di cariche eversive comuni […] Dagli atti della Commissione P2, ma anche dalle confessioni di Buscetta, dai processi contro Musumeci e Pazienza, emerge quel filo conduttore che lega questi fatti al ruolo svolto dai servizi segreti dal dopoguerra in poi, allo scandalo Sifar alla fine degli anni ’60, all’ingresso in campo della mafia, della grande criminalità straniera […] del terrorismo, dell’impero Sindona e dei grandi scandali: dall’aeroporto di Fiumicino, a quello del petrolio, ai fondi neri Iri». Tutto  ciò «implica un giudizio sul modo in cui era organizzato il potere finanziario e politico nel nostro paese […] la P2 è un potere occulto del tutto particolare perché, oltre ad occuparsi dell’economia, delle banche, degli affari, delle armi e della droga, svolge la sua penetrazione nei maggiori gangli dello Stato, nelle istituzioni, nelle forze politiche […] Ecco perché, in sintesi, il fenomeno P2 ha disvelato la profonda crisi dello Stato nel suo complesso, l’incapacità a far prevalere l’interesse pubblico nei confronti delle vecchie e nuove potenze dominanti, che influiscono in modo determinante sulle scelte statali e modificano persino i termini della sovranità nazionale». Insomma la crisi della politica nel suo complesso, che prende il via nella seconda metà degli anni Settanta in tutto il mondo, per effetto del rilancio dell’ideologia liberista, accentua la debolezza strutturale del sistema politico italiano e dà nuova forza a quel coacervo di poteri occulti che si era fino ad allora alimentato e sviluppato sulla paura del comunismo. Finita la prima fase della storia della Repubblica, travolta dai processi politici, economici e sociali indotti dalla caduta del muro di Berlino e dall’avanzare di una rivoluzione tecnologica sempre più invasiva, Antonio Bellocchio lascia la vita parlamentare e l’impegno politico per assumere  l’incarico di presidente dell’ATI (Azienda Tabacchi Italiani), principale controllata dei Monopoli di Stato, dove, grazie alla competenza maturata sula vicenda parlamentare dei Monopoli, ha svolto un importante lavoro di risanamento finanziario, che portò in attivo un bilancio prima fortemente deficitario,  attraverso la ristrutturazione aziendale di tutta la rete industriale nazionale e l’intera  filiera tabacchicola italiana, la più importante d’Europa, rilanciandone le esportazioni dei prodotti finiti nei migliori mercati internazionali. Insomma, Antonio Bellocchio ha speso l’intera sua vita al servizio della causa dei lavoratori e delle istituzioni repubblicane. Lascia un esempio di passione politica, di tenacia, di abnegazione, di rigore, di attaccamento alle istituzioni che assume una valenza enorme in una fase di così acuta crisi della politica e del senso dello Stato. Ai figli Adriano, Bice, Mariagrazia e ai parenti tutti le più sentite condoglianze ed un grande abbraccio.

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