Bisogna dirlo senza mezzi termini, contrastando tutti i tentativi di confondere le acque e offuscare il significato profondo degli avvenimenti internazionali di questa estate. Il tragico epilogo della lunga guerra in Afghanistan è la certificazione conclusiva del fallimento dell’unilateralismo degli USA che, dopo la caduta del muro di Berlino, si erano illusi di poter globalizzare la democrazia attraverso la mondializzazione del liberismo del mercato e la loro superiorità tecnologica e militare. Chi oggi troppo superficialmente accusa Biden per l’indecorosa gestione del ritiro dal Paese delle truppe della Nato, fa finta di non vedere che, dopo venti anni di ingenti investimenti in armamenti e addestramenti dei militari Afgani, dopo tutti gli sforzi per costruire una democrazia nel Paese, la realtà ci consegna non solo il tragico spettacolo dell’aeroporto di Kabul affollato di disperati in fuga dal Paese, ma anche la debacle dell’esercito Afgano che si è sciolto come neve al sole nello spazio di un mattino e la fuga vergognosa del Presidente Ghani scappato ad Abu Dhabi con un elicottero zeppo fino all’inverosimile di soldi rubati al Paese che avrebbe dovuto difendere. La sconfitta disonorevole viene insomma da lontano ed è sancita sul piano politico prima ancora che militare. Trent’anni di interventi militari, privi di adeguata strategia politica, hanno prodotto una lunga scia di sconfitte che si sono tramutate in grandi tragedie all’interno stesso dell’Occidente: dalle primavere arabe alla Siria, dal Medio Oriente alla Libia, dai Balcani, all’11 settembre del 2001, al terrorismo nelle capitali dell’Europa, fino all’Afghanistan. Fanno sorridere perciò soprattutto le critiche a Biden provenienti dai governi delle nazioni europee che in tutti questi anni hanno accettato acriticamente le scelte statunitensi e che, soprattutto, sono stati del tutto incapaci di compiere i passi necessari verso l’integrazione politica del Continente, condizione indispensabile per provare a contare qualcosa nello scenario internazionale. Il vero problema che il dramma del popolo Afgano pone non è quello della ricerca del capro espiatorio di responsabilità molto estese ma quello della rapida ridefinizione di una strategia politica dell’Occidente in grado di promuovere la costruzione di un nuovo ordine globale. Un nuovo ordine che ponga l’umanità nelle condizioni di poter affrontare sfide inedite e terribili: da quelle dell’inquinamento e dei conseguenti cambiamenti climatici, alle grandi migrazioni in atto, ad uno sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile. Ma qui è ormai evidente come il rischio di cadere dalla padella alla brace – e cioè dal multilateralismo USA ad una nuova guerra fredda tra le due superpotenze – è molto serio. Una nuova guerra fredda tra la decadente vecchia potenza economica e militare USA e la nuova emergente potenza cinese, vedrebbe l’Occidente in grande difficoltà, in un mondo ormai radicalmente cambiato nel quale l’asse dello sviluppo si è spostato dall’Atlantico al Pacifico – con l’Asia che si avvia ad essere il continente destinato ad ospitare, nel giro di pochi decenni, oltre il 60 per cento della popolazione mondiale e la parte decisamente più numerosa e dinamica del ceto medio globale in grado di accrescere considerevolmente il proprio tenore di vita, a fronte della crisi profonda dei ceti medi in Occidente. Realisticamente un nuovo ordine, adeguato ai problemi di questo secolo, può reggere esclusivamente sul ripudio della guerra e la permanente e pervicace ricerca dell’accordo e della cooperazione internazionale. A chi in questi giorni ha superficialmente rivendicato l’uso della forza come principale strumento storicamente utilizzato (dall”impero romano fino alla sconfitta del nazismo) per esportare modelli sociali e politici progressivi, è perfino troppo facile rispondere – non solo ricordando che in tutti quei casi la strategia politica e la capacità di quei modelli di rispondere alle esigenze dei tempi ha avuto non meno importanza degli armamenti – ma soprattutto che, dopo l’avvento della bomba atomica e lo straordinario sviluppo tecnologico successivo, l’escalation militare è divenuta uno strumento assolutamente insostenibile. Ripudiare la guerra, ricercare l’intesa e la cooperazione, riformare gli organismi del governo globale – dall’ONU al Fondo monetario internazionale – non significa rinunciare a battersi per l’affermazione dei propri valori ma spostare il confronto su un piano propositivo e costruttivo. Giocando, in sostanza, la partita della politica internazionale sulla capacità di tradurre i propri valori in assetti istituzionali e politiche di governo in grado di garantire più e meglio di altri giustizia e benessere. Infatti, in ultima analisi, la decadenza attuale dell’Occidente, più che essere figlia di una sconfitta militare, deriva dalla crisi del suo sistema democratico, indebolito da decenni di neoliberismo che hanno fatto dilagare egoismi e individualismi, accresciuto a dismisura le diseguaglianze sociali, ridotto diritti e capacità della democrazia di garantire giustizia, futuro, benessere e vera libertà – che non può essere fondata sulla libertà del singolo individuo di fare quel che gli pare ma, al contrario, sulla forza dello stato di definire regole e soprattutto di farle rispettare, limitando la libertà dei singoli, e soprattutto quella dei soggetti più forti, quando questa contrasta con la libertà degli altri. Se la pandemia ha contribuito a far riscoprire il primato della politica e dello Stato su quella del privato, non c è dubbio che è ancora lungo il cammino per costruire una nuova efficiente democrazia ed un nuovo ordine, soprattutto in questa parte del Mondo. Da questo punto di vista un ruolo decisivo spetta all’Europa per troppo tempo rimasta in mezzo al guado. Solo se la importante novità del Recovery Plan diventerà uno strumento permanente di politica economica comune, in grado di accelerare il cammino verso una effettiva integrazione politica, l’Europa potrà svolgere il suo ruolo vitale di effettiva potenza globale. Ecco perché tranquillizzano le iniziative che Mario Draghi ha intrapreso sia nei confronti dello sviluppo della politica economica comune dell’Europa, sia con la proposta di un G20 immediato per gestire gli aspetti umanitari della vicenda Afgana. A sconcertare è la pochezza delle analisi e dell’iniziativa delle forze politiche. È la rigenerazione della democrazia e del sistema politico la vera priorità dell’Europa e dell’Occidente.
