Il mio saluto alla presentazione del libro “scritti di diritto pubblico europeo dell’economia” Capua Dipartimento di Economia 29 ottobre 2024

Benvenuti a Capua ai relatori e grazie al Dipartimento di Economia per l’invito alla presentazione di questi scritti che ho trovato di grande attualità e di estremo interesse per la loro pregnanza nella costruzione di un pensiero adeguato al delicato passaggio storico che stiamo attraversando. Il libro curato dal professor Alberto Lucarelli affronta, infatti, un nodo centrale non solo nel dibattito sugli aspetti giuridici della costruzione dell’Europa ma anche nello scontro politico e sociale durissimo, che caratterizza questi primi decenni del secolo, tra due opposte visioni del futuro del mondo. Da un lato le spinte nazionaliste – che rischiano di annullare il cammino fin qui compiuto nel processo di costruzione di una organizzazione europea sovranazionale, che pur con tutti i limiti e le contraddizioni, ben evidenziati nel libro, ci ha consentito di non essere travolti dalla più grande crisi finanziaria, economica, climatica, sanitaria, geopolitica, che si ricordi dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Dall’altro il difficile tentativo di rilancio del processo di integrazione politica dell’Europa, che – dopo il tempo perduto a causa della bocciatura del progetto di Costituzione europea nel corso del primo decennio – ha ora bisogno di bruciare le tappe per consentire al nostro Continente di partecipare, con il peso di una potenza globale, al processo in atto di riconfigurazione della globalizzazione. Un processo dagli esiti incerti e denso di rischi tremendi per il futuro dell’umanità. L’obiettivo dichiarato di questi scritti di diritto pubblico, infatti, è quello di individuare dei principi costituzionali europei che siano fonti ispiratrici di politiche pubbliche in grado di garantire il godimento di diritti fondamentali dei cittadini in base a criteri di equità che caratterizzano uno stato sociale. E’ evidente però – ragionando sul piano della prospettiva politica – che questa dimensione sociale non è sostenibile nell’attuale contesto internazionale, se l’Europa rimane una costruzione politica incompiuta. Non è sostenibile non solo per la contraddittorietà dei principi europei che enunciano istanze di sostenibilità ambientale e sociale, a fronte del dominio della concorrenza imposto dalla logica di Maastricht prevalso in Europa in ossequio ad una ideologia neoliberista che assegna alle politiche pubbliche un ruolo esclusivo di garanzia della proprietà e dell’impresa. Una cultura che ha imposto a tutti i livelli, una logica di liberalizzazione e di aziendalizzazione, ormai praticata a piene mani perfino nel campo dei servizi pubblici essenziali, di cui nei comuni vediamo ogni giorno gli effetti perversi. Contano ancor più l’incerta forma di Stato e l’ambigua forma di governo che – se nei primi trent’anni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale  non hanno impedito a molti Paesi, a partire da Germania, Francia ed Italia, una pratica di governo fondata sul modello socialdemocratico – nell’attuale contesto dell’economia globale, rappresentano il principale ostacolo alla possibilità di praticare un modello alternativo a quello neoliberista, nonostante il suo evidente fallimento evidenziato dal crollo del sistema finanziario mondiale del 2008 e dalla Grande Recessione che seguì nel 2009. Insomma se la diffusione dagli anni Ottanta in poi di una cultura individualista ha avuto i suo peso nel far prevalere l’anima commerciale dell’Europa è la mancata riforma dello Stato, intesa come proiezione della democrazia rappresentativa e della sovranità popolare nei grandi spazi sovranazionali, ad aver tolto forza e possibilità a chi vuole affermare il primato dei diritti sociali dei cittadini sulla tutela della proprietà e della concorrenza. Quindi Costituzionalizzazione dei diritti, con tutto ciò che ne consegue anche sul piano dell’assetto istituzionale e proiezione dello stato sociale in Europa sono assolutamente inscindibili. La mia opinione è che la rivoluzione tecnologica, i processi economici conseguenti, e quindi il tipo di globalizzazione che ne è derivata, hanno prodotto un cortocircuito tra la dimensione e gli ambiti territoriali delle istituzioni e quelli dei fenomeni economici e sociali che esse sono chiamate a governare. Badate questo vale per i parlamenti nazionali come per il sistema delle autonomie locali, che soprattutto in Italia, sia per le Province che per i Comuni, è ancora basato su ambiti territoriali in gran parte di epoca borbonica. Da Sindaco ogni giorno constato l’inadeguatezza del governo di una città che da tempo è parte di un unico vasto sistema urbano a sua volta inserito in un area metropolitana di dimensioni regionali. Un sistema urbano sede di funzioni metropolitane di eccellenza: dai dipartimenti dell’Università Vanvitelli, a scuole di alta formazione, a centri di ricerca in settori strategici per l’economia nazionale, a partire dal Centro Italiano di ricerche Aerospaziali di Capua, alla logistica, dalla stazione di smistamento e l’interporto Sud Europa, alle infrastrutture aeroportuali. Insomma, per tornare alla questione della costruzione europea, io credo che prima ancora dell’influenza delle tesi ordoliberali nel diritto europeo, in contrasto con la nostra costituzione, che subordina la libertà di mercato a vincoli di utilità sociale,  sia la mancanza di uno Stato federale in cui prevalga il modello sovranazionale su quello intergovernativo ad aver impedito il primato della politica e di conseguenza la praticabilità dello stato sociale a livello europeo. Frammentazione sociale e globalizzazione neoliberista hanno messo in crisi gli stati nazionali e il vecchio ordine scaturito a Bretton Woods, producendo quella che Bauman chiama una separazione tra politica e potere. A ben vedere sono questa separazione e l’illusione neoliberista di un mercato che si autoregola, sia pure attraverso un ruolo illimitato delle leva finanziaria nel sostegno ai consumi, ad aver determinato la grande crisi del 2008 e la recessione del 2009. Il keynesismo – che ha sostenuto il modello socialdemocratico nel dopoguerra,  consapevole della  tendenza strutturale del capitalismo  di produrre una quantità di beni e servizi che superano di gran lunga la domanda di mercato e quindi della tendenza ad andare incontro a crisi ricorrenti – delineò l’intervento dello stato a sostegno della domanda e il suo primato nel governo dell’economia, garantendo la fase più lunga di crescita e di una più equa redistribuzione della ricchezza. Poi con la crisi degli stati nazione si affermò l’illusione della infallibilità di un mercato regolato non più dagli stati nazionali ma da una finanza deregolamentata, dotata del potere di stampare moneta dal nulla in quantità quasi illimitata. A quel punto la finanziarizzazione dell’economia ha portato alle estreme conseguenze il livello di diseguaglianza mentre la crisi del vecchio ordine, e l’incapacità delle istituzioni di adeguare ai processi economici e finanziari la loro dimensione, hanno tolto alla politica il potere di agire e di affermare il primato degli obiettivi sociali sulle logiche di mercato. Di qui la crisi della democrazia rappresentativa, della politica e della sovranità dello Stato. Basta pensare a come gli stati nazione non sono in grado di adottare sistemi fiscali invisi alle grandi multinazionali e alla grande finanza perché i poteri extraistituzionali sono così forti e talmente superiori da aver indotto una competizione tra le nazioni al ribasso delle aliquote fiscali. O ad una politica monetaria esercitata da una banca centrale sovranazionale che non ha nel proprio statuto l’obiettivo dell’occupazione ma solo della stabilità dei prezzi né l’interfaccia di uno stato di pari dimensione in grado di garantire un’unica politica fiscale, un bilancio unico, una effettiva sovranità popolare. Il malessere sociale scaturito dalle crisi che ne sono derivate hanno alimentato una ondata populista e nazionalista di dimensioni preoccupanti, che è passata prima in Inghilterra e negli Stati Uniti per poi frenare con l’arrivo della pandemia, che ha rimesso al centro la questione sociale e ha riproposto il ruolo centrale del pubblico nel governo dell’economia, l’esigenza di un nuovo ordine internazionale senza il quale l’umanità non può affrontare le sfide globali del nostro tempo: dalle diseguaglianze, ai cambiamenti climatici, alle grandi migrazioni, al tema della pace e della guerra. Penso al tentativo di Biden di rilanciare l’intervento pubblico negli USA e in Occidente, al Recovery Plan in Europa, il più imponente piano di investimenti comunitari che sia stato mai varato dai primi anni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale ma anche la prima volta di una mutualizzazione del debito. Poi però sono arrivate le guerre, la fine della politica dei bassi tassi di interesse, l’esplosione dell’inflazione, la drastica caduta della crescita. Di conseguenza le spinte nazionaliste e populiste hanno assunto una forza tale da mettere in discussione la tenuta della democrazia in Occidente. Ora è evidente che l’Europa non può rimanere in mezzo al guado. Non ha molto tempo per praticare la strada di una spedita integrazione politica unica possibilità di assurgere a potenza globale, pena il ritorno ai nazionalismi privi di reali prospettive in un Mondo nel quale contano solo i grandi imperi continentali. Serve una alleanza europeista che riesca a svolgere la stessa funzione che l’alleanza antifascista esercitò per porre fine alla seconda guerra mondiale. Una alleanza fondata su un progetto forte di integrazione politica, di investimenti comuni della dimensione che di recente ha indicato Mario Draghi per recuperare competitività e livelli di crescita in grado di rilanciare la coesione sociale. Ma su quali forze si può contare per costruirla in una società sempre più frammentata, priva di partiti ed organizzazioni sociali di dimensione paneuropea, radicati nella società e nei territori? E’ un terreno questo molto difficile. Tuttavia nel contesto di debolezza del tessuto democratico e del tessuto sociale, possiamo individuare un punto di riferimento certo: la cultura, la ricerca scientifica, possono svolgere un ruolo decisivo. Ben vengano dunque ricerche come queste. Serve un rapporto forte tra politica e competenze. Serve ricostruire canali di comunicazione efficaci, tra conoscenza, politica e società. L’augurio che mi sento di fare ai vostri scritti è quello di poter contribuire a questo processo non rinviabile di costruzione di un pensiero adeguato alle sfide del nostro tempo capace di esercitare una egemonia culturale nel senso della direzione intellettuale e morale della società. Egemonia culturale di gramsciana memoria.

Grazie e buon lavoro      

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