Ricordare adeguatamente Giuseppe Capobianco a 30 anni dalla sua scomparsa è arduo perché necessita di rievocare passaggi cruciali della storia del Novecento. Passaggi che lui, politico di prim’ordine, ha attraversato da protagonista, o ha analizzato e raccontato approfonditamente, con l’approccio dello storico rigoroso, fornendo un contributo decisivo alla comprensione di vicende storiche e di innumerevoli trasformazioni politiche, geografiche, economiche, urbanistiche e sociali che hanno investito la provincia di Terra di Lavoro. Vicende non solo locali, ma la cui conoscenza è indispensabile, se si vuole comprendere fino in fondo come l’insieme dei problemi che hanno caratterizzato la questione meridionale – imposta all’attenzione del Paese all’indomani dell’unità d’Italia a causa della sua arretratezza economica, sociale e politica rispetto alle regioni settentrionali – si sia evoluto nel corso del secolo scorso. Perché la nostra non è mai stata e non è una Provincia minore, periferica, ma una realtà da sempre emblematica e strategica per il ruolo che ha esercitato nella storia come cerniera, fin dall’antichità, prima tra la civiltà etrusco romana e quella italica meridionale, poi tra il Nord ed il Sud del Paese. Non a caso è lungo le sponde del Volturno che si decise, tra il 26 settembre e il 2 ottobre del 1860, l’esito della guerra per l’Unità d’Italia ed è nella Reggia di Caserta che fu sottoscritto il 29 aprile del 1945 l’atto che sancì la fine delle Seconda Guerra Mondiale. Ed oggi gran parte del territorio dell’attuale provincia di Caserta ha assunto un ruolo strategico nei processi di riqualificazione e di riorganizzazione della più grande area metropolitana del Mezzogiorno, che da più di sessant’anni non è riferibile alla sola provincia napoletana ma ha assunto le dimensioni di una grande conurbazione regionale, che si estende, senza soluzione di continuità, da Capua fino a Salerno. Di ciò aveva piena consapevolezza Peppino Capobianco, il cui operato ha avuto non a caso una valenza regionale, meridionale e nazionale. Proverò, tuttavia, almeno a delineare il profilo del politico, dello storico, della persona, dell’uomo. Da dirigente politico, da rivoluzionario professionale, come si definivano i funzionari del PCI – ruolo al quale era approdato sulla spinta della rivolta morale che maturò tra gli sfollati di Gaeta e quindi sulla base di una forte motivazione antifascista – Peppino ha attraversato da protagonista passaggi decisivi della vita politica italiana. Il suo esordio politico fu da segretario provinciale della Federazione Giovanile Comunista a Caserta. Poi rivestì diversi ruoli nel partito e in organizzazioni di massa, a Caserta ma anche in altre regioni del Paese, nelle quali veniva inviato, da chi curava la formazione dei quadri politici, perché maturasse una esperienza completa e una consapevolezza piena della complessità della realtà italiana. A quel tempo i partiti, ed in particolare il PCI, avevano un metodo di formazione dei quadri, della classe dirigente. Una prassi da tempo abbandonata con le conseguenze che tutti constatiamo. Basta scorrere il suo curriculum: prima segretario provinciale della Confederterra, dell’Alleanza contadini e della Federbraccianti CIGL a Caserta; poi l’esperienza nelle segreterie provinciali del partito a Benevento, Napoli, Pescara, Teramo; Commissario al comitato regionale del PCI in Molise; nella segreteria del comitato regionale del PCI in Abruzzo; nella segreteria regionale in Campania; poi nuovo passaggio in una organizzazione di massa, la Federmezzadri della Regione Abruzzo. In tutti questi ruoli lavora alla costruzione del “partito nuovo”. Quando si parla del “partito Nuovo” ci si riferisce alla grande operazione politica avviata dal segretario generale del PCI, Palmiro Togliatti, appena sbarcato a Salerno, nel Marzo del 1944, dopo lunghi anni di esilio all’estero, imposto dal regime dittatoriale Mussoliniano. Grande non è un termine enfatico perché fu quello un capolavoro politico che trasforma – nel pieno di una guerra di liberazione ancora in corso, e poi via via attraverso tutto il cammino di costruzione della Repubblica – un partito minoritario, di quadri fortemente ideologizzati, un partito che usciva da un lungo periodo di clandestinità, in un grande partito di massa. Un partito, insomma, capace – come lo stesso Togliatti sottolineò nel celebre discorso al cinema modernissimo di Napoli – di “aderire a tutte le pieghe” della società italiana, L’operazione politica che edifica il più grande partito comunista dell’Occidente, destinato ad avere un ruolo decisivo nel processo di liberazione dell’Italia dal nazifascismo; nella nascita della Repubblica; nella scrittura della Costituzione, legge fondamentale del nostro stato democratico; nel processo di emancipazione delle classi lavoratrici; nella conquista di fondamentali diritti sociali e civili che hanno modernizzato l’Italia; nella costruzione di una cultura del governo locale che ha fatto scuola in Europa; nella sconfitta del terrorismo politico e mafioso; nella difesa e nello sviluppo della democrazia rappresentativa. Come tutti i quadri del PCI Capobianco, come ho prima ricordato, matura esperienze significative anche nella direzione di organizzazioni di massa, in particolare nel settore dell’agricoltura, che lo vede protagonista di primo piano delle lotte per la terra che si svilupparono tra il 1944 e il 1949 e delle grandi mobilitazioni degli anni Cinquanta e Sessanta per il salario e i diritti dei braccianti, per i patti agrari. Parliamo, in questo caso, della stagione delle lotte sociali che segnarono la fine del dominio politico della grande proprietà terriera assenteista e la nascita di una moderna organizzazione di classe nel Mezzogiorno . Una battaglia durissima che vide i comunisti in prima linea e che costò un prezzo elevatissimo in termini di repressione, di denunce e arresti di lavoratori, sindacalisti, politici e tra questi Giuseppe Capobianco che subì diversi fermi di polizia ed arresti che contribuirono ad accrescere la stima e il rispetto dei suoi compagni di partito e valsero il superamento di quella diffidenza iniziale che i comunisti di più vecchia data non potevano non nutrire all’atto della sua adesione al partito del proletariato, nei confronti del figlio di un colonnello dell’esercito e di una discendente di una famiglia agiata di farmacisti, i Saccavino di Santa Maria a Vico. Rientrato definitivamente a Caserta ed in Campania vive il passaggio del rinnovamento del PCI avviato da Enrico Berlinguer all’inizio degli anni Settanta, alla guida della Federazione provinciale comunista di Caserta, di cui fu segretario dal 1970 al 1976. Con la sua segreteria si aprono le porte dell’apparato e degli organismi del partito, del sindacato, delle organizzazioni di massa e delle rappresentanze istituzionali (dai Comuni, alla Provincia, al Consiglio Regionale della Campania, al Parlamento), alla generazione delle avanguardie dei giovani e degli operai che si erano affermati nelle contestazioni studentesche del 1968 e nel corso dell’autunno caldo del movimento operaio del 1969. Arriviamo così al decennio a cavallo degli anni Ottanta: gli anni delle trame reazionarie volte a fermare le conquiste operaie e democratiche, degli attentati e delle stragi del terrorismo politico e mafioso e soprattutto dell’avvio della rivoluzione informatica, del conseguente processo di deindustrializzazione del Mezzogiorno e dell’Italia – e più in generale dell’Europa che perde in quella fase la sfida della rivoluzione informatica a vantaggio di Stati Uniti e Giappone – e poi più tardi anche della Cina. Sono gli anni che inaugurano un trentennio destinato ad indebolire lo stato sociale, a ridimensionare il peso numerico e politico della classe operaia delle grandi fabbriche nella società italiana; gli anni della vertenza Campana e delle vertenze di zona che vedono la sinistra e il sindacato impegnati a fare i conti con le grandi questioni del ruolo e dell’assetto del territorio, a cimentarsi con gli effetti delle grandi trasformazioni economiche e sociali che cambiano radicalmente il mondo della produzione e del lavoro, spostano l’attenzione dalla quantità alla qualità dello sviluppo, ormai sempre più dipendente dalla diffusione dell’effetto urbano e quindi dalla capacità delle grandi aree urbane di garantire alle imprese pubbliche e private un contesto territoriale ricco di servizi avanzati, di centri ricerca, di scuole di alta formazione, di centri di formazione professionale. Un decennio destinato a modellare il futuro dell’Italia, che vede Capobianco impegnato a dirigere la Commissione di Organizzazione del Comitato Regionale campano del PCI, al tempo della segreteria di Antonio Bassolino e poi presidente della Commissione Regionale di Controllo e membro della Commissione Nazionale Centrale di Controllo del partito. Arriva il momento del pensionamento che per lui non fu un periodo di riposo, ma la stagione nella quale intensifica le sue ricerche storiche e si dedica con tutte le sue forze a combattere la sua ultima battaglia politica nel PCI: la battaglia che intraprende, dopo la caduta del muro di Berlino, da semplice militante, per contrastare il processo politico che porta alla fine del PCI e alla nascita del PDS. Una battaglia che lo vede fermamente contrario al cambio del nome e del simbolo del partito ma non da posizioni di conservazione – e lo dico io che come è noto ho avuto convinzioni e posizioni molto diverse da quelle di Capobianco. A motivare la sua iniziativa di contrasto del gruppo dirigente nazionale, infatti, non c’era solo la speranza, da lui pure coltivata, che la fine dell’Unione Sovietica e il tentativo di riforma intrapreso da Gorbaciov potessero approdare ad un nuovo comunismo. Lo affermo con cognizione di causa, avendo avuto in quella fase, nella quale ero responsabile dell’Organizzazione della Federazione comunista di Caserta, diversi colloqui con lui. Lo cercai spesso in quelle settimane, per certi aspetti tragiche e laceranti, certamente di grande sofferenza interiore per tutti noi, perché mi sembrava insopportabile e traumatica la prospettiva di una conclusione del congresso con una scissione e con l’uscita dal partito di un dirigente con la storia di Peppino Capobianco. Ho un ricordo nitido quei colloqui, perfino delle parole che utilizzammo. Era evidente il suo stato d’animo di immensa amarezza. Feci appello al ruolo che aveva sempre assolto nella storia del PCI, come dirigente appartenente a quel centro del partito che, anche nei passaggi più laceranti e nei momenti di svolta più significativi – non pochi nel lungo cammino della sinistra italiana – aveva sempre lavorato con pazienza e con tenacia per tenere unite nel partito tutte le diverse anime e sensibilità secondo i principi del rinnovamento nella continuità e dell’unità nel pluralismo delle opinioni. Fu inutile. Mi rispose che noi stavamo liquidando qualcosa che era a lui molto cara e che non avrebbe fatto sconti, che sarebbe andato fino in fondo. Appurai, però, che nella sua opposizione intransigente alla svolta di Occhetto, pesò in modo determinante la convinzione che per il PCI la fine dell’Unione Sovietica poneva soprattutto un problema di identità. Problema che, a suo giudizio, non poteva essere risolto partendo dal cambio del simbolo e del nome ma solo attraverso una analisi profonda delle grandi trasformazioni economiche e sociali in atto, la conseguente elaborazione di un adeguato programma fondamentale e una nuova strategia politica, pena il rischio della liquidazione di una esperienza storica e con essa anche di una chiara prospettiva per il futuro. Lo conferma quel passaggio pronunciato nel suo intervento al congresso che poi portò alla scissione: “Compagni io non vi seguirò, ma non è un addio”. Un passaggio che indicava chiaramente la sua uscita dal partito non significava rinunciare a lavorare per costruire una identità nuova, capace di riportare sotto le stesse bandiere una comunità di uomini e di donne che aveva il dovere di saper custodire con cura una storia importante. Una delle storie fondative dell’Italia democratica e repubblicana e non solo della comunità politica che era stata largamente maggioritaria all’interno della sinistra italiana. Insomma come sempre Peppino metteva in gioco, prima ancora dei sentimenti – che ovviamente non potevano non giocare un ruolo importante per chi vedeva messa in discussione la creatura politica alla quale aveva sacrificato tutta la sua vita – la ragione, la valutazione sulla prospettiva politica. Oggi, alla luce di quel che è successo, dell’esperienza delle formazioni politiche nate da quella svolta, dal PDS ai DS, fino alla fondazione del PD e della sua attuale condizione, certo non brillante, penso che la sua riflessione sui limiti politici e culturali con cui è stato affrontato quel passaggio storico abbia un fondamento di verità su cui mai come ora è bene riflettere con lucidità e profondità di pensiero. Estremamente significativo è stato anche il contributo di Giuseppe Capobianco alla ricerca storica sulle vicende politiche e sociali di Terra di lavoro che vanno dalla fine dell’Ottocento fino agli anni immediatamente successivi alla caduta del muro di Berlino. Un contributo, ripeto, di rilievo nazionale. Sia chiaro Peppino non si è mai definito uno storico. Anzi in uno dei suoi scritti afferma che nei suoi saggi, nei suoi numerosi libri, fatti con sentimenti e ricordi. In realtà tutti i suoi scritti evidenziano una capacità non comune di analizzare, con il distaccato proprio dello storico, le trasformazioni politiche economiche e sociali. Tutti i suoi scritti sono fondati sulla conoscenza e sulla diffusione di fonti documentarie certe e largamente riconosciute. Ne da atto Aurelio Lepre nella prefazione al libro su “ La costruzione del partito nuovo in una provincia del Sud” dove è scritto: “i suoi libri non sono di memorialistica ma di storia.” Constatazione incontestabile se è vero, come è vero – e nessuno può testimoniarlo meglio della comunità caiatina dove lui scelse di vivere gli ultimi anni di una vita contrassegnata da tante sofferenze e prove difficili – che i risultati della sua ricerca hanno imposto, nel dibattito nazionale tra gli storici, la riconsiderazione di giudizi stereotipati sulla Resistenza e sul ruolo del Mezzogiorno nel processo di liberazione dell’Italia. A ripercorrere i suoi saggi sulla storia di Terra di lavoro, appare evidente il contributo straordinario che ha dato alla conoscenza di fatti e passaggi cruciali sui quali a volte è perfino difficile trovare altri studi dotati della stessa meticolosità, diligenza e completezza di analisi. Innanzitutto le ricerche sulle tendenze del primo socialismo in Terra di Lavoro, dagli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento al 1925: dalla repubblica anarchica del Matese del 1887; alle esperienze collegate ai fasci siciliani vissute ad Alife; alle rivolte per il pane; ai riferimenti ai primi nuclei socialisti casertani fondati da Giulio e Leopoldo Ranucci a Sparanise, da Giuseppe Farina e Andrea Mariano a Capua, tra gli studenti del Regio Ginnasio di Santa Maria CV, dai fratelli Ortenzio e Loreto Severino di Caiazzo; alle prime leghe di lavoratori nelle cartiere meridionali di Isola Liri e delle Manifatture Cotoniere Meridionali; ad Antonio Indaco e al sindacalismo rivoluzionario. Fondamentali i suoi saggi sul carattere peculiare dello sviluppo del fascismo nel casertano, sulla soppressione della provincia di Terra di lavoro da parte di Mussolini, tra la fine del 1926 e l’inizio del 1927, sul conseguente smembramento del territorio di quella che era stata la provincia più estesa della Campania, da Nola, a Gaeta fino a Sora. Straordinario e pioneristico l’eccellente lavoro di ricostruzione degli eventi che seguirono l’annuncio dell’Armistizio dell’Otto Settembre del 1943, quando il piano campano fu stretto nella tenaglia dei bombardamenti alleati e degli eccidi nazisti. E’ solo grazie alla sua ricerca capillare, scrupolosa, condotta comune per comune, che sono ritornati alla luce episodi dimenticati di resistenza e di antifascismo, di atrocità e di eroismo. I suoi libri e quegli elenchi pubblicati in calce con estrema cura, dei confinati e dei perseguitati durante il fascismo, dei trucidati dai nazisti, dei militari caduti, dei bombardamenti e dei danni prodotti in termini di vite umane sacrificate e di danni al patrimonio storico e culturale, delle vittime dei lager nazisti, hanno non solo documentato il prezzo elevato pagato dalla nostra provincia alla liberazione del Paese ma hanno proposto una lettura politica e storica di una resistenza in Terra di Lavoro, espressa nelle forme di ribellione e di spontaneità, le uniche rese possibili dalla rapidità dell’avanzata alleata nel Mezzogiorno dopo lo sbarco in Sicilia. Una lettura che ha cancellato la vulgata, per troppo tempo dominante nel dibattito storico e politico nazionale, di una Resistenza limitata alle sole regioni del Centro Nord. La ricerca di Capobianco ha svelato il carattere nazionale che ha avuto la lotta di liberazione, dimostrando che le stesse 5 giornate di Napoli, unica tra le grandi città del Paese ad essersi liberata da sola, non sono state nel Sud un episodio isolato. Un opera quella sull’autunno del 1943 che ha dato un contributo decisivo anche sul piano giudiziario, alla ricerca e alla condanna dei responsabili degli eccidi nazisti. E’ il caso del libro “La barbarie e il coraggio”, scritto insieme a Giuseppe Agnone, sul massacro nazista di Caiazzo. Libro acquisito al fascicolo dibattimentale nel corso del processo penale che ha portato alla condanna di due dei responsabili della strage dei 22 civili caiatini sul Monte Carmignano, unica sentenza in Italia da parte di una Corte di Assise – e non di un tribunale militare – di condanna di criminali nazisti. E poi ci sono gli scritti sulla questione agraria – dalla bonifica integrale alle lotte bracciantili e contadine – che Capobianco approfondisce per individuare gli elementi di continuità nella fase di passaggio dal fascismo al centrismo nelle zone latifondistiche della Campania; saggi sul quadro socio – economico e politico dell’area casertana dal 1946 al 1985. Un quadro che Capobianco delinea e dettaglia anche attraverso le biografie dei dirigenti politici locali: da Corrado Graziadei, a Leopoldo Cappabianca, ad Antonio Marasco, a Michele Izzo, a Corrado Tarigetto. Insomma siamo in presenza di un opera straordinaria che ci riporta ai grandi passaggi della storia del Mezzogiorno e dell’Italia. Impossibile affrontarli in modo esaustivo nello spazio che si può ragionevolmente dedicare ad una commemorazione come questa. Spero però che questa serata solleciti un lavoro di approfondimento per ciascuno di essi. Lo spero non per Peppino, che non ha bisogno di altri riconoscimenti, ma per noi, perché la comprensione di queste vicende storiche, di queste trasformazioni economiche e sociali, è essenziale per capire chi siamo, per capire fino in fondo il presente, il caotico presente che attraversiamo, nel quale stiano rivivendo, sia pure in un contesto profondamente diverso da allora, le stesse tendenze politiche e sociali che all’inizio del secolo scorso ci portarono alle due guerre mondiali. E ancora in troppi dimostrano scarsa consapevolezza dei rischi tremendi che sono davanti a noi. La vostra associazione storica, rappresentativa di una comunità cui davvero Capobianco ha dato tanto, può farsi carico di questo approfondimento, anche attraverso un ciclo di convegni tematici sulla sua ricerca. Credo però che valga la pena ripensare a Capobianco anche sotto il profilo della sua personalità, dei tratti e delle caratteristiche distintive che hanno caratterizzato il suo modo d’essere: estremamente rigoroso e coerente con le sue idee; con la sua concezione della politica, intesa come alto impegno ideale e culturale al servizio dell’umanità; con la sua concezione della funzione del dirigente politico, esercitata con disinteresse personale assoluto, sempre pronto ad affrontare qualsiasi sacrificio per la causa comune. Si può dire sono tratti, caratteristiche, che si ritrovano in tante biografie di dirigenti politici e militanti comunisti e socialisti. E’ vero in parte, perché è, però, raro trovare personalità che le abbiano incarnate, in tutte le fasi della loro vita, con l’immutato livello di coerenza e di purezza d’animo testimoniato da Peppino Capobianco, che non è riuscito solo ad anteporre sempre il noi all’io ma per il noi è giunto ad annullare l’io, in una sorta di ascetismo laico. Per queste sue doti straordinarie me lo indicò come esempio mio padre quando, ancora ragazzo, mi avviai all’impegno politico. Ne ho avuto più volte poi dimostrazione nel vedergli preferire l’impegno nel partito ad ogni ipotesi di incarico istituzionale, che erano certo alla sua portata non solo per la preparazione ma anche per aver ricoperto cariche che lo inserirono nel novero delle personalità che contavano nel decidere le candidature ad ogni livello, quelle cariche istituzionali che potevano per lui rappresentare una giusta ricompensa dei sacrifici che una vita da rivoluzionario professionale richiedevano, ed anche una garanzia di quel minimo di serenità economica che certo non poteva essere assicurata per se e per la sua famiglia dai magri stipendi di un funzionario di partito. Ma anche su questo mi sento di affermare con convinzione profonda che non si trattò di timidezza, come qualcuno può pensare. La sua fu una scelta precisa legata certo alla convinzione del ruolo insostituibile del partito quale strumento di partecipazione dei cittadini e di buongoverno delle istituzioni e della società. Ma anche di fermezza nell’evitare a qualsiasi costo che si potesse anche minimamente considerare il suo impegno politico come qualcosa di finalizzato a soddisfare un’ambizione personale. La scelta, insomma, di dimostrare con il comportamento, con i fatti, più che con le parole, di essere totalmente votato alla causa, nell’assoluto disinteresse personale. Era convinto che questo fosse il modo più efficace per evidenziare, più di quanto potessero fare mille discorsi, la diversità del suo partito, la superiorità dei suoi ideali. Insomma lui era convinto dell’importanza dell’esempio e trovava il modo di ricordarlo spesso, ripetendo una frase che ritroviamo anche nel suo intervento al congresso della scissione, e che cito testualmente: “anche una singola testimonianza può tenere accesa la fiaccola dell’utopia”. D’altronde lui, studente modello ed eccellente, aveva abbandonato gli studi universitari, contro la volontà del padre, per dedicare la sua esistenza alla costruzione di una società nuova. Una società come l’aveva desiderata nei mesi trascorsi sulle montagne tra Gaeta e Formia, con il padre e la sorella, per sfuggire ai rastrellamenti nazisti. Lì aveva cominciato a coltivare il sogno di un mondo nuovo, nel quale si affermassero il clima e i valori umani che aveva avvertito tra la gente stremata dalla fame e dal freddo, tra quanti fuggivano dall’oppressione rischiando di essere ammazzati o deportati. In quei terribili mesi la comune tragedia, la consapevolezza del comune destino, induceva tutti ad aiutarsi l’un l’altro. In quei momenti aveva toccato con mano la possibilità di far maturare un “uomo nuovo”, una nuova umanità, di poter costruire una società nella quale tutti fossero più solidali, più uguali, più umani. Tutti i suoi sacrifici erano sorretti da questa grande tensione ideale, dall’altezza degli obiettivi che perseguiva, della meta cui ambiva. Anche il lavoro impegnativo, cui si dedicò negli anni della pensione, di ricostruire e divulgare gli eventi tragici dell’autunno del 1943, era sostenuto certo dalla volontà di restituire giustizia ad un popolo che aveva sofferto atrocità inaudite per troppo tempo dimenticate, ma soprattutto dall’obiettivo di ricostruire una memoria che era stata negata e che lui individuava invece come patrimonio collettivo e quindi come la base politica e morale di un progetto di riscatto sociale su cui costruire un futuro migliore, quella società più umana che lui aveva inseguito rinunciando ad ogni altra cosa. Una riflessione su queste qualità del politico Capobianco ritengo sia non meno interessante di quelle che suscitano le sue esperienze politiche e le sue ricerche storiche. Soprattutto se è una riflessione ispirata dalla necessità di ritrovare la via giusta per attraversare questo nostro tempo segnato da una crisi acutissima della politica, sempre più affollata da narcisisti, mercenari, e mai come ora è il caso di dire, da nani e da ballerine. Fu questa curiosità, questo bisogno di capire da dove traeva la forza della sua estrema coerenza tra ideali e vita vissuta che mi indusse alcuni anni fa a scavare sulla sua adolescenza, sugli anni fondamentali della sua formazione intellettuale ed umana e a scrivere un libro che è anche una saga familiare, la storia di un rapporto tra un padre ed un figlio che ha come cornice la Gaeta degli anni Trenta del secolo scorso. Una città che grazie a trasformazioni urbanistiche, all’insediamento di una grande vetreria, al rilancio delle attività portuali e alla costruzione della città giardino di Serapo, provava a svoltare sulla strada di un nuovo sviluppo ma incontrò su questa strada prima il regime fascista, poi la guerra e la spietata occupazione tedesca che si scatenò in un punto strategico della linea Gustav, dopo l’otto settembre del 1943. Qui Francesco Capobianco, ufficiale dell’esercito Regio, pluridecorato della Grande Guerra, che sceglie a rischio della vita di rimanere fedele al Re – e il figlio Peppino – studente eccellente dall’animo generoso e sensibile – condividono il calvario patito dalla popolazione di Gaeta dopo l’Armistizio, riescono a salvarsi con una fortunosa fuga via mare il 17 marzo del 1944, dopo mesi trascorsi sulle montagne tra rifugi di fortuna e inaudite sofferenze. Una esperienza dura e traumatica che accrescerà la stima reciproca tra padre e figlio ma, al tempo stesso, creerà le premesse di un lungo e doloroso conflitto familiare. Entrambi infatti vivranno con estremo rigore, coerenza e determinazione le opposte scelte di vita e i diversi modi di concepire la società nell’Italia liberata. Uno spaccato emblematico del conflitto generazionale che si consuma nel passaggio dal fascismo alla democrazia e che tiene banco fino all’esplosione della contestazione giovanile alla fine degli anni Sessanta. Entrare in questa storia, cogliere le ragioni e i significati profondi di quel conflitto è fondamentale per capire fino in fondo chi è stato, perché e cosa ha rappresentato e rappresenta ancora Peppino Capobianco ma aiuta anche, non meno di quanto facciano i suoi saggi politici e storici, a capire il Novecento, le trasformazioni del costume e del senso comune che hanno investito la società italiana lungo tutto il secolo scorso, di quale politica abbiamo bisogno per uscire dal caos di questo tempo. Giuseppe Capobianco rimane per me, oggi più di ieri – al di la delle diverse sensibilità che abbiamo rappresentato nel partito – il dirigente politico colto e severo che ci ha insegnato, soprattutto con l’esempio, che la politica deve avere un’etica e che la libertà e la democrazia sono forti solo se il personale politico è animato da obiettivi di giustizia sociale, di un forte senso della comunità e di consapevolezza di un destino che è comune. Se invece prevalgono interessi personali o di parte, democrazia e libertà sono destinate prima o poi ad essere messe in discussione o a mettere in discussione il futuro dell’umanità. Questo in assoluto è il lascito più significativo e terribilmente attuale, data la deriva individualistica oggi dilagante, della sua esistenza. Voglio perciò concludere questa giornata con un saluto che, sono certo, ci accomuna: ciao Peppino. Sono trascorsi trent’anni da quel 27 settembre del 1994. Da allora non sei più tra noi eppure ancor ci parli. Grazie di tutto.
