
Giorgio Napolitano ha avuto con la provincia di Caserta un legame intenso e mai interrotto. Un legame iniziato nel gennaio del 1951 quando Giorgio Amendola, a quel tempo segretario regionale del PCI della Campania e della Lucania, lo inviò a dirigere la Federazione provinciale del partito. Una decisione rapida – attuata nel giro di una settimana – che lo stesso Napolitano paragonò, nel suo libro autobiografico “Dal PCI al socialismo europeo”, ad una precettazione. Di certo non gli piaceva l’idea di dover lasciare una grande città industriale come Napoli, sempre sotto i riflettori del gruppo dirigente nazionale e ricca di fermenti culturali, per andare a dirigere il partito in una piccola e arretrata provincia prevalentemente agricola. Ma allora alle decisioni del segretario si ubbidiva e basta.
Per meglio comprendere le ragioni che spinsero il gruppo dirigente a fare quella scelta bisogna considerare da un lato il percorso che aveva portato Napolitano ad aderire al PCI e le sue prime esperienze di dirigente politico a Napoli; dall’altro la condizione del partito e del tessuto economico della ricostruita provincia di Caserta nell’immediato dopoguerra. Nel 1951 Napolitano aveva solo 26 anni e si era iscritto al PCI sei anni prima. Vi era approdato dopo esperienze non diverse da quelle vissute da altri brillanti giovani studenti italiani negli anni della guerra. Aveva scoperto la dimensione della politica e la passione per il teatro a Padova, dove la famiglia era “sfollata” nel 1942, dopo i primi bombardamenti inglesi su Napoli. Qui aveva frequentato ambienti intellettuali che attraverso l’impegno culturale finirono per approdare alla militanza politica antifascista. Poi rientrato a Napoli, prima dei pesanti bombardamenti americani dell’agosto del 1943, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza ed entrò nell’organizzazione dei giovani universitari fascisti, che in realtà era divenuta quello che lui stesso definì un “vivaio di energie intellettuali antifasciste”. Non fu un caso isolato quello dei GUF napoletani ma parte di una vicenda che investì tutto il mondo universitario italiano: era il frutto del cambio di strategia nella lotta al fascismo, operata alcuni anni prima dai partiti dell’emigrazione antifascista. La strategia dell’entrismo, che porterà comunisti e socialisti a inaugurare la tattica dell’opposizione legale al regime, attraverso la penetrazione all’interno delle organizzazioni fasciste, in particolare quelle studentesche, per approfittare del malcontento che andava crescendo nel Paese dai tempi della guerra in Spagna e che aveva raggiunto il suo apice con l’entrata in guerra dell’Italia. Soprattutto il PCI individuava nei giovani intellettuali che si impegnavano intorno a giornali e riviste universitarie un enorme potenziale antifascista da mobilitare per abbattere il regime. Frequentando questi gruppi Napolitano viene coinvolto, subito dopo la liberazione del Mezzogiorno, nell’autunno del 1943, nella nascente “Alleanza culturale napoletana” e cura la rubrica di critica teatrale sul quotidiano la Voce. Comincia a frequentare ambienti culturali per diverse ragioni vicini al gruppo dirigente nazionale del PCI. Nel 1945 inizia il suo impegno politico da indipendente perché nutre dubbi di carattere ideologico nei confronti del PCI, ma poi finisce per aderirvi condividendo, come lui scrive “l’impulso politico e morale di un impegno in una realtà sociale carica di ingiustizie e di miserie”. A differenza di ciò che si può pensare per tante nuove leve arrivate al partito in quella fase non fu la motivazione ideologica a prevalere, a riprova della grande apertura che Togliatti imprime al partito nuovo. Si apre in quegli anni un “aspro conflitto” con il padre, titolare di uno degli studi legali più affermati di Napoli. Un conflitto causato non solo dall’adesione al PCI ma soprattutto dal rifiuto di seguirlo nella professione di avvocato. Notato da due dirigenti del calibro di Giorgio Amendola e di Emilio Sereni viene nominato vicesegretario del Centro Economico italiano per il Mezzogiorno. Dopo il 18 aprile 1948 passa all’attività di funzionario del PCI a tempo pieno, inserito nella segreteria provinciale napoletana con la responsabilità del “lavoro di massa”, un ruolo che lo mette in contatto con i quadri operai del partito e con il sindacato. Era un tempo nel quale i partiti erano luoghi di formazione di classe dirigente ed era naturale che un quadro con le sue spiccate potenzialità venisse curato nel suo percorso di crescita indirizzandolo all’impegno in diversi ruoli di direzione e in diverse realtà territoriali.
Quanto alla provincia di Caserta la sua condizione negli anni del dopoguerra era effettivamente di grande arretratezza economica, politica e sociale. E’ illuminante la relazione mensile che il prefetto di Caserta inviò al ministero dell’Interno nell’ottobre del 1947, a due anni dalla ricostruzione della provincia attuale (quella precedente di Terra di Lavoro era stata soppressa e smembrata da Mussolini nel 1926). Il suo già debole apparato industriale era stato fortemente ridimensionato: il Pirotecnico esercito di Capua, che prima del 1945 impegnava in media circa 4000 lavoratori, ne impiegava 400, mentre lo stabilimento per la produzione della cellulosa che assorbiva 200 operai aveva trasformato la natura della sua produzione e dava lavoro a non più di 100 lavoratori; 650 persone che lavoravano nello stabilimento delle “Cotoniere Meridionali” di Piedimonte d’Alife erano rimaste prive di lavoro; molini e pastifici dell’area casertana e i setifici di San Leucio avevano ridotto produzione e maestranze; per le maestranze industriali dell’area aversana, che era priva di insediamenti industriali, con il passaggio alla provincia di Caserta si chiusero le porte degli opifici della provincia di Napoli; le numerose caserme delle principali città – da Caserta, ad Aversa, a Capua, a santa Maria, a Maddaloni – erano completamente vuote; il ritorno di reduci e di prigionieri di guerra aumentava le tensioni sociali (si contarono numerosi assalti ai municipi). L’agricoltura era schiacciata dal peso della grande proprietà latifondista: da un lato 112000 aziende con meno di un ettaro a testa, dall’altro 412 aziende con una media di 228 ettari ciascuna. Il prevalere della rendita scoraggiava le migliorie, condannava migliaia di ettari di fertile suolo all’incuria e faceva crescere la disoccupazione e la fame. C’erano poi 30000 braccianti con paghe da fame e mancanza di diritti assistenziali e previdenziali.
All’arretratezza economica e sociale corrispondeva anche quella politica, palesata dal catastrofico risultato del referendum sulla monarchia del 1946, con la Repubblica che raggiunse in provincia solo il 16,88% dei voti e il PCI un misero 4,98%, meno degli iscritti al partito. Certo nel 1951 la condizione del partito in Terra di Lavoro aveva fatto qualche passo in avanti, grazie alla stagione dell’occupazione delle terre, che durò fino al 1949. Una stagione di lotta durissima nella quale il PCI aveva avuto un ruolo fondamentale contando molti dirigenti arrestati: Giuseppe Capobianco, Libero Graziadei, Gaetano Volpe, Salvatore Pellegrino. Ma il peso del padronato agrario ne uscì fortemente ridimensionato, le organizzazioni di massa e il sindacato avevano assunto un ruolo di protagonisti sulla scena economica e sociale. PCI e PSI videro crescere vistosamente i loro consensi elettorali passando dal 10,26 per cento dei voti del 1946 al 16,10 per cento dei voti del 1948. La DC fu costretta a cambiare le rappresentanze istituzionali prima squilibrate a favore del padronato agrario. Tuttavia la situazione del partito che dovette affrontare Napolitano rimaneva tutt’altro che semplice. In molti dei 100 comuni della provincia non c’era ancora una sezione del PCI. Inoltre per usare le parole di Giorgio “c’era un modo d’essere indistinto nelle forze politiche e sociali della sinistra, nel senso che in essa confluivano quasi senza confini presenza e iniziativa di comunisti e socialisti, dei sindacati e di associazioni di categoria ancora poco strutturati e soprattutto poco affermati come soggetti autonomi”. Appena eletto segretario prende casa a Santa Maria, dove aveva sede ancora la Federazione provinciale e poi a Caserta. La sua è una esperienza fatta di sacrifici e ristrettezze personali, di grandi sforzi per portare avanti battaglie di riscatto sociale e civile in un clima politico caratterizzato da un forte inasprimento della repressione. Furono quelli anni di scioperi per l’occupazione, di forti discriminazioni nei luoghi di lavoro nei confronti dei lavoratori comunisti e dei sindacalisti, di cortei e di scontri con la polizia di Scelba, della scomunica dei comunisti da parte di papa Pacelli, nonostante il PCI avesse votato, pochi anni prima, l’articolo 7 della Costituzione sui rapporti tra Stato e Chiesa e accettato i Patti lateranensi, mentre sul piano internazionale si viveva il clima di guerra fredda tra i due blocchi militari e politici contrapposti. Il reddito medio pro capite fatto cento al Nord era 55 al Sud. Napolitano visita uno per uno più volte tutti i comuni grandi e piccoli della provincia: dal Matese, al Sessano, all’area Casertana e Aversana. Il partito era ovunque all’opposizione. I suoi militanti subivano pesanti discriminazioni e repressioni sulle quali Napolitano scrive nella sua biografia passaggi particolarmente sentiti che vale la pena riportare testualmente: “A Caserta, come segretario della Federazione del PCI, sperimentai altri sistematici abusi: non era consentito stampare e affiggere un manifesto, promuovere una manifestazione politica o sindacale, diffondere un giornale di partito, senza preventive autorizzazioni che venivano sommariamente negate, a piacimento della Questura e della Prefettura. E c’era di peggio: interventi polizieschi per rompere manifestazioni e contrastare agitazioni, fino all’arresto – in occasione di uno sciopero di braccianti – del segretario della Camera del Lavoro di Caserta, del segretario della Federbraccianti, del mio più qualificato collaboratore nella segreteria della Federazione comunista Enzo Raucci. Fecero carcere preventivo e furono condannati a due anni, poi ridotti in appello. Successivamente Raucci fu eletto deputato e mi rimase legato da profonda amicizia”…”I partiti di maggioranza avrebbero poi pagato un grave prezzo per la loro linea di condotta: lo si vide nelle elezioni politiche del 1953, che segnarono un indubbio successo del PCI, anche dove esso era più debole come in provincia di Caserta.” Napolitano ricorda come “la maggior parte di noi militanti comunisti era dominata da un senso di drammatica precarietà e perfino dell’incubo di una terza guerra mondiale. Bisogna fare uno sforzo, oggi, per rendersi conto di quali minacce avvertissimo per le libertà costituzionali e per il PCI.” Nel 1953 entra da segretario della Federazione Comunista di Caserta per la prima volta in Parlamento, eletto nel collegio Napoli Caserta, grazie non solo ai voti degli elettori comunisti casertani, che da soli non sarebbero stati sufficienti, ma anche al sostegno di Amendola e del mitico responsabile di organizzazione della federazione di Napoli, Cacciapuoti. Vive da segretario e parlamentare casertano anche il trauma del 1956 dell’invasione dell’Ungheria e lo scontro sull’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, questioni sui cui tornerà più tardi con forti giudizi autocritici che caratterizzeranno la sua battaglia riformista destinata a condurre il PCI verso la scelta europeista e l’approdo al socialismo europeo. Napolitano rimane alla guida della Federazione casertana per sei lunghi anni, fino al 1957 quando lascia per assumere la responsabilità nazionale della commissione meridionale. Ma non si spezzeranno i suoi legami con Terra di lavoro. Se l’amicizia con Enzo Raucci, che gli farà da testimone nelle nozze con Clio – e le rispettive famiglie – diventa molto stretta, stabilisce rapporti amicali destinati a durare nel tempo con molti compagni ed elettori della nostra provincia, e non solo con quelli che manifestavano nel partito la sua stessa sensibilità. D’altronde si trova in qualche modo coinvolto in vicende drammatiche anche familiari di molti compagni casertani in anni nei quali non era certo facile la militanza comunista. Va ricordato il suo tentativo di riconciliare Peppino Capobianco con il padre Francesco, ufficiale dell’esercito, che era stato pluridecorato nel corso della prima guerra mondiale. Tra padre e figlio, uniti nelle comuni virtù, figlie della rigorosa coerenza con le rispettive convinzioni ma divisi negli ideali, si era consumata una rottura drammatica, causata dalla scelta di Peppino di interrompere gli studi per dedicarsi alla militanza comunista che lo portava perfino a distribuire volantini che incitavano alla disobbedienza contro la guerra tra i soldati del suo distretto militare. Un atto inaccettabile per un ufficiale formato alla scuola del Regio Esercito che vedeva nell’obbedienza il fondamento della patria e della famiglia. Il tentativo fallì nonostante Napolitano, per provenienza sociale e esperienze familiari, fosse di certo la persona più adatta per provarci. Sarà poi testimone di nozze di Peppino, sposatosi con rito civile senza il permesso del padre – e poi dopo qualche anno, mentre Capobianco era costretto alla latitanza per non subire un nuovo arresto, si reca al comune di Santa Maria Capua Vetere per dichiarare la nascita del figlio di Peppino che porta il nome del nonno, Francesco, nato in casa Simoncelli a Santa Maria Capua Vetere. Ho avuto modo di constatare direttamente in molte occasioni – nelle quali ho accompagnato Giorgio a tenere iniziative pubbliche in provincia – la solidità dei rapporti di amicizia maturati negli anni della sua segreteria a Caserta e i tratti profondamente umani della sua personalità, molto lontana da quella rappresentazione di freddezza e di distacco che spesso gli è stata cucita addosso.
L’amicizia profonda con Enzo Raucci fu la ragione di un rapporto estremamente forte tra Napolitano e la città di Capua. È difficile ricordare una campagna elettorale che non abbia registrato la presenza di Giorgio Napolitano in città. Ricordo la manifestazione di apertura della campagna elettorale nelle amministrative del 1988 in piazza Annunziata, di cui conservo la registrazione. Che ho riascoltato ieri, non senza commozione. Manifestazione tenuta insieme a me, allora giovanissimo capolista del PCI. Ho riascoltato i riferimenti forti e precisi – e per molti aspetti attuali – al grande patrimonio storico e architettonico della città, che lui riteneva avesse pochi eguali in Campania; all’esigenza di partire dal suo recupero e riuso per uscire dalla lunga fase di decadenza, facendo leva sui processi di razionalizzazione e riorganizzazione dell’area metropolitana di Napoli, accelerati dal terremoto del 1980 e a quel tempo in pieno sviluppo, con la delocalizzazione sul nostro territorio del CIRA, della nuova Scuola Militare di rilievo nazionale, con l’avvio del processo di istituzione del Secondo Ateneo Campano, che avrebbe visto più tardi localizzare gran parte delle sue Facoltà nelle principali città della provincia, Capua compresa, la localizzazione della Stazione di smistamento di Marcianise. Delocalizzazioni che lui indicava come una grande opportunità di sviluppo, a condizioni che fossero governate con sensibilità nuova, attenta ad un uso corretto della preziosa risorsa del territorio, per garantire una crescita non caotica ma rispettosa di esigenze che andavano maturando nella società, di tutela dell’ambiente, di valorizzazione di un patrimonio storico di prima grandezza, di uso intelligente del tempo libero che apriva spazi allo sviluppo turistico e commerciale. Possiamo dire che non c’è processo di trasformazione economica e sociale intervenuto in provincia di Caserta negli anni della Repubblica – dalle lotte per il lavoro dei primi anni cinquanta, allo sviluppo industriale per poli ed assi degli anni Sessanta e Settanta; alla fase di deindustrializzazione e di diffusione dei servizi e dell’effetto urbano nel corso degli anni Ottanta; agli anni del contrasto alla penetrazione della camorra – divenuta imprenditrice, grazie al controllo del traffico della droga e dei flussi di danaro pubblico legati alla ricostruzione del dopo terremoto – nelle istituzioni locali, che non abbia registrato il contributo di elaborazione, di iniziativa politica e istituzionale di Giorgio Napolitano. Contributo manifestato a volte dai banchi dell’opposizione, altre da quelli del governo ma sempre con spirito costruttivo e con eccellente livello di competenza, di preparazione, di equilibrio, di serietà. Giorgio Napolitano è stato la migliore personalità politica del riformismo della Sinistra Italiana, un grande statista, un Europeista convinto. Ne parlerà certamente Umberto. Ma parlare di Napolitano a Caserta significa riflettere anche sulle grandi trasformazioni che hanno cambiato il volto di un’area strategica della Campania, il suo rapporto di forte reciprocità con Napoli. Un processo tutt’altro che concluso ed in parte frenato dal riemergere in forme esasperate di spinte localistiche che finiscono per limitarne le grandi potenzialità di sviluppo. Spero perciò che la ricerca storica sul ruolo di Giorgio Napolitano a Caserta possa contribuire a suscitare un confronto sulla funzione di Terra di Lavoro nel processo di rilancio della Campania come capitale di un Mezzogiorno che rinasce valorizzando la sua funzione di porta del Mediterraneo sull’Europa, possa aiutare a riscoprire la politica, oggi in profondo declino, come il bene più prezioso da preservare per affermare l’interesse generale, come il più alto impegno ideale e culturale al servizio della comunità, che mi pare l’eredità più significativa del suo esempio di militanza politica e di vita.
