Ieri sera intorno alle 23,00 è stato appiccato il fuoco all’albero dove il 5 ottobre del 1943 i nazisti impiccarono il giovanissimo Carlo Santagata, medaglia d’oro della resistenza. Si è trattato di un incendio doloso. Su questo dubbi non ci sono. Alcuni residenti hanno visto un giovane con il capo coperto dal cappuccio di una felpa avvicinarsi all’albero e lanciare una bottiglia incendiaria nella parte bassa, dove inizia la cavità di quel che è rimasto del tronco del vecchio gelso. Dopo il vile gesto questo giovane si è diretto verso una vecchia BMW con a bordo due persone in attesa, che si è allontanata velocemente. Solo grazie al pronto intervento di alcuni cittadini residenti nella zona sono stati chiamati i vigili del fuoco intervenuti rapidamente. Colpisce la scelta del momento, a pochi giorni dall’ottantesimo anniversario del sacrificio di Carlo Santagata e della liberazione di Capua. È un atto gravissimo che non può essere sottovalutato. Quell’albero è il simbolo della ferocia nazista e delle sofferenze prodotte dall’occupazione tedesca ai nostri concittadini dopo il bombardamento del 9 settembre del 1943. Ma è anche il simbolo di una reazione coraggiosa, della ribellione di un giovane coraggioso che non fu un gesto isolato ma un tassello di una rivolta di militari e civili che si armarono per reagire alle violenze dei nazisti. Una rivolta che determinò la sconfitta del nemico consentendo l’ingresso degli inglesi nella città che si era liberata da sola. Si tratta dunque di un attacco alle basi su cui è nata la nostra libertà. Un attacco di matrice fascista e criminale su cui occorre fare piena luce per capirne fino in fondo tutti gli obiettivi.
Intanto diamo una prima risposta. A chi vuole cancellare la memoria della nostra identità rispondiamo ricordando gli eventi di quel 5 e 6 Ottobre di ottanta anni fa.
Dal discorso da me pronunciato nell’aula del consiglio comunale di Capua in occasione della celebrazione del 74esimo anniversario della liberazione della città:
“Subito dopo il bombardamento del 9 settembre il reparto tedesco, acquartierato in via Duomo, abbandonò la città distrutta e si schierò sulla riva destra del Volturno. Ogni giorno con i <lontri>, sequestrati ai nostri pescatori, i soldati tedeschi, accompagnati da un collaborazionista, attraversavano il Volturno, all’altezza di via Pomerio e procedevano ai rastrellamenti degli uomini, ai saccheggi nelle caserme, nelle abitazioni abbandonate, nelle campagne. Per chi opponeva anche solo un minimo di resistenza arrivava la fucilazione. Ben 32 furono i trucidati: Vincenzo Bellone, Salvatore Buonagurio, Alberto Catone, Carmine Di Maio, Biagio Di Rienzo, Nicola Di Benedetto, Michele Di Palma, otto militari ignoti, Antonio Iovanelli, Mariano Lombardi, Wolden Manchestù, Gaetano Mariano, Anna Maria Monaco, Pasquale Palazzo, Antimo Paternuosto, Emilio Paternuosto, Giuseppe Paternuosto, Luigi Polito, Giovanni Ragozzino, Ottavio Rigoni, Carlo Santagata, Pasquale Taddeo, Leonardo Zaccariello, Francesco Zarrillo, Anna Zuppa. Tutte uccisioni efferate. Forse l’azione più gratuita e disumana toccò a Mariano Lombardi, cognato del generale Nobile, esploratore negli anni 20 del Polo Nord con i dirigibili Norge e Italia. Fu abbattuto a colpi di mitra solo perché zoppicava e per questo si attardava ad eseguire l’intimazione ad abbandonare le grotte di Santa Caterina, dove si era rifugiata una parte della popolazione scampata al bombardamento. Un grande atto di dignità e di coraggio va segnalato: quello dell’impiegato comunale Ermelindo Pesce che si rifiutò di consegnare ai tedeschi le liste di leva, per non facilitare le retate dei giovani che non si erano presentati all’appello. Fu arrestato e portato al campo di concentramento di Sparanise. Sapremo presto il seguito della sua storia, ripresa, attraverso ricerche condotte presso l’Archivio Centrale di Stato, in un libro del professore Cerchia, dell’Università del Molise, dato alla stampa proprio in questi giorni.
Di fronte a queste atrocità, a Capua, come nel resto di Terra di Lavoro, possiamo affermare vi sia stata una resistenza organizzata di massa? La rapidità degli eventi non poteva certo consentire una preparazione militare come quella che si riscontrò più tardi nel Nord. Ma non dimentichiamo che il Nord si liberò a distanza di un anno e mezzo rispetto al Sud e nei primi mesi dell’occupazione tedesca, in quelle regioni, si registrò solo una attività di organizzazione delle formazioni partigiane con azioni rapide, condotte esclusivamente per procurarsi le armi e cominciare ad addestrare gli uomini. Una vera guerra partigiana prese forza solo dopo gli scioperi nelle grandi fabbriche del Nord della primavera del 1944. A Capua inoltre la gravità dei danni del bombardamento ed il gran numero di vittime aveva prodotto nella popolazione un forte shock. Tuttavia una reazione significativa vi fu. Certo una resistenza spontanea, una sorta di ribellione ai soprusi e alle prepotenze. Ma la spontaneità dell’azione, nella situazione data, non ne attenuava la portata ed il significato rispetto agli episodi di resistenza organizzata che si registrarono successivamente in altre parti del Paese. Il bisogno di difendersi fece nascere i primi gruppi armati di militari e civili. L’azione svolta dai gruppi di opposizione nel corso del ventennio ebbe il suo peso. La scintilla che face scoppiare la guerriglia arrivò il cinque ottobre. I soldati tedeschi armati anche di mitragliatrici, bombe a mano e lanciafiamme cominciarono a bruciare alcune case in via Gran Priorato di Malta e in via Roma. Amedeo Lepre strisciando sulle macerie di via Principi dei Normanni aprì il fuoco sui tedeschi che per ritorsione presero in ostaggio due fanciulle. A quel punto partì la reazione degli altri uomini, che da giorni si stavano preparando alla battaglia, e dei parenti delle due sequestrate. I tedeschi furono costretti a fuggire e a lasciarle andar via. Il Tenente Giuseppe Guida del Pirotecnico e il maresciallo dei Carabinieri Giovanni Tescione dissotterrarono le armi da guerra, che avevano precedentemente nascosto, e armarono altri uomini. Formarono una squadra con il tenente Pasquale Riccio, il carrista Pietro Orsi, i sergenti Franco Epifania, Antonio Feola, Mario Lucchese e Franco Vinciguerra. Ai militari pian piano si unirono civili che in qualche modo li coadiuvarono: Vincenzo Faenza, lo stesso Amedeo Lepre, Armando Barone, Vittorio D’Angelo, Antonio Riccio, Alfredo Di Benedetto, Pasquale Merola, Filippo Manfredini, Vincenzo Paggiarino, Luigi Garbini, Luigi Amato, Umberto Onza, Michele Accarino, Antonio Faenza, Antimo Bellone, Francesco Ricciardi, Vittorio Russo, Vincenzo Mauro, Francesco Dores. Alfredo Di Benedetto eseguì una decisione che era stata presa durante una riunione tenuta in una Chiesa, per discutere un piano di difesa dalle prepotenze dei nazisti che ormai si ripetevano da giorni. Con un colpo di fucile uccise un collaborazionista, che a Capua chiamavano “o pazzo”. Armato fino ai denti, con nastri di munizioni che fasciavano tutto il corpo, guidava ogni giorno i soldati tedeschi indicando loro i palazzi nei quali procedere a rastrellamenti e razzie. Gli scontri più cruenti si svolsero sul Volturno all’altezza della stazione della Ferrovia Alifana, mentre i tedeschi attraversavano il fiume. Qui il carrista Pietro Orsi si lanciò verso la parte bassa del fiume e aprì per primo il fuoco. Negli scontri che si svilupparono rimasero uccisi due tedeschi, ne furono feriti altri due e ciò provocò la fuga degli altri soldati. Ne nacque un conflitto a fuoco tra le due rive del fiume. Un soldato eritreo rimase ucciso, mentre il tenente Guida fu ferito e condotto all’Ospedale di S. Maria. Poi gli scontri si spostarono anche in altre parti della città. Amedeo Lepre catturò quattro tedeschi che si erano dati alla fuga nei fossati di Porta Napoli, a riprova che ormai anche nelle file del nemico crescevano la stanchezza e lo scoramento.
L’azione di Carlo Santagata non fu, dunque, un episodio isolato, frutto della testa calda di un giovane. Certo la causa scatenante è nota e a noi -non dimentichiamolo mai questo dato- è giunta dalla confessione degli stessi tedeschi che lo seviziarono e lo uccisero. Questo il loro racconto raccolto poi dagli inglesi: il 5 ottobre Carlo fu fermato al posto di blocco istituito dai nazisti in località “Pagliariello”, all’incrocio della nazionale Appia con Via Grotte San Lazzaro, per contrastare l’ingresso in città degli inglesi in avanzata da Sud. I soldati lo derubarono di tutto ciò che aveva con se, compresi alcuni pezzi di pane che si era procurato per la sua famiglia. Da ciò che altri testimoni dichiararono sappiamo che a quel punto Carlo si recò in località Macello, dove teneva nascosti un fucile e un tascapane pieno di bombe a mano. Già il fatto che un giovane, nascondesse delle armi dovrebbe pur dire qualcosa. Inoltre, come poi dimostrò, Carlo quelle armi sapeva usarle bene dal momento che era stato una mascotte di un reparto di alpini guastatori. Ritornò al posto di blocco e ingaggiò, da solo, una battaglia con i soldati causando al nemico gravi danni. Poi ferito e catturato fu impiccato ad un albero. Il suo fu un atto consapevole di chi, evidentemente, aveva già deciso di partecipare alla battaglia alla quale da giorni ci si stava preparando. L’idea che io ho maturato è che Carlo fosse intenzionato ad unirsi agli altri capuani che combattevano in diversi punti della città, dopo aver portato quel pane alla sua famiglia. La ricerca del cibo in giorni nei quali si pativa la fame, era una necessità per tutti. Lo stesso carrista Pietro Orsi si unì agli insorti proprio mentre era alla ricerca di cibo per la sua famiglia. L’episodio del fermo al posto di blocco fu, dunque, solo la scintilla che spinse Carlo Santagata ad agire impulsivamente, commettendo certo una imprudenza, che in ogni caso assume il valore di un atto di grande eroismo di cui Capua deve essergli grata in eterno, perché grazie anche al suo gesto oggi possiamo dire che i capuani seppero conquistare la loro liberazione. Come si scoprì ciò che gli era accaduto? E’ fondamentale ricordarlo perché chiarisce il legame che c’è tra la sua uccisione e la liberazione della città avvenuta il giorno dopo: il 6 ottobre.

Quella mattina il tenente dei bersaglieri Alessandro De Rosa, che dopo il dissolvimento dell’esercito aveva raggiunto la sua famiglia sfollata a Macerata Campania, rientrava in città per recuperare degli oggetti nella sua casa di via Roma. Giunto nei pressi del “Pagliariello” intravide il corpo del giovane ancora penzolante. Durante il percorso incontrò alcuni concittadini che lo informarono di quanto era accaduto, dei combattimenti in corso in diversi punti della città e soprattutto dello scontro in atto tra il reparto dei tedeschi, contro cui aveva combattuto Carlo Santagata, e gli inglesi che, fermi all’altezza del rione che oggi porta il nome di Carlo, non riuscivano ad aprirsi la strada per entrare in Capua. Comprese immediatamente che i nazisti, ormai in difficoltà, anche per le perdita già subite, potevano essere affrontati e costretti alla resa. Così decise di passare all’azione. Si procurò delle armi insieme a Carmine Caputo, a Raffaele Belli -che era stato un suo dipendente, quale aggregato al reparto di bersaglieri da lui comandato-, a Gennaro Martino e Ciro Grimaldi. Scelta una posizione strategica, a circa 200 metri dal reparto dei tedeschi, cominciò a sparare con un fucile mitragliatore. I tedeschi si arresero. A quel punto gli inglesi entrarono in città, presero in consegna i soldati catturati dai capuani, videro il corpo di Carlo, ne chiesero conto ai tedeschi che confessarono quanto era accaduto il giorno precedente: lo scontro con il giovane, le perdite subite, la cattura avvenuta grazie all’inceppamento del suo fucile, le sevizie e poi l’impiccagione. Il suo sacrificio non era stato inutile. Anche Capua si era liberata grazie alla ribellione dei suoi cittadini. Lo stesso era avvento il giorno prima a Santa Maria Capua Vetere, dove vi era stata una vera e propria insurrezione di massa, cominciata la mattina con una grande folla di militari e di civili che irruppero nella caserma dei carabinieri, dove i tedeschi avevano fatto accumulate le armi presenti nelle caserme, e al grido di “viva i carabinieri” se ne impossessarono riuscendo a liberare la città dopo una dura battaglia.
Ciò che era accaduto a Capua d’altronde si stava verificando in tutto il territorio circostante, anche sotto l’impulso delle 5 giornate di Napoli, liberata il 1° ottobre. Intanto nelle colline da Bellona a Caserta, l’afflusso di militari sbandati, aveva pian piano portato alla creazione di gruppi armati composti da militari e civili antifascisti. Alcuni capuani erano presenti anche in queste formazioni improvvisate che operavano in quelle zone, nelle quali nei giorni successivi si verificarono centinaia di scontri e di episodi di ribellione e di resistenza e purtroppo anche gli eccidi più noti ed efferati di Bellona e di Caiazzo. Uno di questi gruppi era capeggiato da Beniamino Ferrone, nipote di Alberto Iannone.

