Massimo D’Alema sulle pagine di Huffpost prova e scuotere il mondo della politica guardando alla prossima scadenza dell’elezione del presidente della Repubblica: “bisogna fare in modo che venga fuori una soluzione che riapra il campo della politica, della sovranità della politica anche se con un compromesso”. Poi aggiunge un po’ di pepe: “L’idea che il presidente del Consiglio si auto elegga capo dello Stato e nomini un alto funzionario del Tesoro al suo posto mi sembra non adeguato per un Paese democratico come l’Italia, con rispetto per le persone”. Ma è in grado una politica così debole e malata di promuovere un compromesso all’altezza della fase critica che stiamo attraversando? Il commissariamento della politica, determinato dalla scelta compiuta da Mattarella di affidare il governo ad una personalità come Mario Draghi (dotata di prestigio internazionale e della necessario profiloeuropeista), è stato la conseguenza di una crisi profonda del nostro sistema politico, privo da tempo di coalizioni tradizionali credibili sul piano del governo. Quella crisi è tutt’altro che finita. Il centrosinistra è debolissimo a causa della sconfitta storica subita nelle politiche del 2018 e della ulteriore frammentazione che ne è scaturita nel suo campo di riferimento. Una debolezza tutta politica che non può essere superata proponendo una semplice alleanza elettorale tra un PD che dopo il crollo non è riuscito a rifondarsi su basi politiche nuove e quel che resta della confusa avventura dei 5 stelle fortemente caratterizzata dall’antipolitica. Serve ben altro, a partire da una rivoluzione profonda della struttura del PD – che a Zingaretti non è riuscita e che Letta ha fin qui solo evocato – che sia in grado di restituire al principale partito del centrosinistra capacità di elaborazione, forza attrattiva e grande radicamento sociale e territoriale. Il centrodestra sulla carta ha buone possibilità di uscire vittorioso da una competizione politica anticipata ma solo come coalizione elettorale priva di qualsiasi credibilità di forza di governo, a causa del peso eccessivo dell’anima populista e nazionalista. In questa situazione è normale che il destino della attuale base parlamentare del governo è strettamente legato alla sua tenuta nel passaggio complicatissimo dell’elezione del Presidente della Repubblica. Complicatissimo perché la difficoltà a raggiungere una intesa tra le principali forze che sostengono il governo Draghi, è aggravata dalla scadenza ravvicinata della legislatura (poco più di un anno). Per questo chi vuole salvare la legislatura ragiona su una soluzione per il Quirinale che mantenga il delicato equilibrio politico fondato sul ruolo decisivo di Draghi. Non sarà facile. Ma sono in grado i partiti di consolidare e spostare più avanti questo equilibrio aggiungendo alla figura di Draghi un compromesso che restituisca al campo della politica il suo ruolo? Non è meno complicato perché la condizione è una strategia dotata di un respiro tale da garantire un accordo che vada oltre questa legislatura. Serve cioè una strategia capace di fare emergere, nella larga base parlamentare che oggi sostiene Draghi, una maggioranza politica coesa su un progetto di medio termine che copra tutto il tempo sia di questa legislatura sia di gran parte della prossima. Perché quello è il tempo necessario all’attuazione del Recovery Plan, alla messa in sicurezza dell’Italia e della svolta Europea e alla ricostruzione di coalizioni politiche alternative dotate della necessaria credibilità e di un comune quadro di riferimento democratico nel quale riconoscersi reciprocamente. Insomma, un compromesso politico tra forze diverse è possibile e accettabile solo se motivato dall’interesse vitale del Paese e della difesa della democrazia. Il governo Draghi è nato per portare l’Italia fuori dalla pandemia e dalla crisi economica, tenendola saldamente ancorata al processo di integrazione politica dell’Europa. È possibile continuare a garantire questo obiettivo solo con una nuova maggioranza politica che sia in grado di trovare un accordo complessivo sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica, sul prosieguo di questa legislatura e su un assetto del governo nella prossima legislatura che trovi legittimazione democratica nel prossimo passaggio elettorale delle politiche del 2023. La scelta di Draghi è riuscita a mettere insieme tutte le forze europeiste e ad ottenere il sostegno, sia pure sofferto, di un pezzo delle stesse forze nazionaliste sia sul PRNN che sui provvedimenti per uscire dalla crisi sanitaria. Si può fare di più e meglio solo attraverso una vera alleanza politica che tenga insieme almeno tutte le forze europeiste che sostengono l’attuale governo: dai cinque stelle, al PD, al frammentato mondo centrista del centrodestra e del centrosinistra, fino a quel pezzo della lega rappresentativo dei ceti produttivi del Nord che, grazie alla pandemia, ha compreso che l’Italia non si salva da sola e che la scelta nazionalista equivarrebbe ad un suicidio. Perché è chiaro che in assenza di coalizioni politiche tradizionali in grado di rigenerarsi in tempo utile all’obiettivo di salvare il Paese questo è quel che serve fare. Non sfuggono ovviamente le estreme difficoltà di un percorso così impegnativo che per passare deve partire dalla rinuncia ad affrontare il prossimo passaggio elettorale con le coalizioni politiche attuali, già messe a dura prova dall’avvenuto del governo Draghi. Ed è chiaro che le maggiori difficoltà le avrebbe il centrodestra. Ad oggi, infatti, non si intravede nelle forze politiche la consapevolezza che dalla crisi politica italiana si può uscire prendendo atto che la vera grande discriminante che conta è rappresentata dallo scontro tra riconfigurazione della globalizzazione (e quindi per quanto ci riguarda dalla scelta Europeista) e rigurgito nazionalista. Nessuna delle principali forze politiche che sostengono il governo ha messo in campo la proposta di una alleanza nuova che svolga in questa fase di emergenza sanitaria economica e democratica la funzione che l’alleanza antifascista ebbe nel determinare la sconfitta del nazifascismo e l’uscita dalla Seconda Guerra Mondiale. Solo un compromesso di questa valenza politica può essere utile al Paese ma presuppone la non scontata disponibilità da parte di molti a rinunciare alle rendite di posizione acquisite. Qualche giorno fa ho scritto che l’acutezza della crisi politica e la drammatica difficoltà del passaggio dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica rendono fondamentale la volontà di Draghi perché, allo stato delle cose, è l’unico che appare in condizione di tentare una operazione di questa portata. Ovviamente a condizione che scelga di svolgere una funzione squisitamente politica. Cosa al momento poco probabile. Ma non appare forse ancora più improbabile un rapido processo di rigenerazione dei partiti come quello che servirebbe per restituire alla politica il suo legittimo primato? Forse non è un caso che nella stessa intervista D’Alema abbia voluto aggiungere l’augurio “che si faccia un passo decisivo in avanti per la ricostruzione di una grande forza progressista”. Un annuncio chiaro di un prossimo rientro di Articolo 1 nel PD che sta provando a ricostruire un dialogo con la società attraverso il lavoro delle Agorà. Certo se fosse già in campo una grande e vera forza riformista forse un compromesso politico per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica e una nuova coerente alleanza europeista avrebbe qualche possibilità di successo. Ma allo stato dei fatti è poco credibile che un processo di questa portata possa realizzarsi nei tempi ristretti che sono davanti al Parlamento. Tuttavia se la provocazione di D’Alema riuscisse almeno ad accelerare un percorso di riorganizzazione e di rilancio di un PD più unito, più forte e più radicato nel Paese sarebbe già un bel passo in avanti.
